Comitato Triveneto per il SLD, “Procreazione: lotta di classe” – Prima Parte

 

Estratto dal libro (a cura del) Collettivo Internazionale Femminista, “aborto di Stato: strage delle innocenti”, Marsilio Editori, Venezia, 1976, pagg. 23-38
Il seguente testo è stato scritto dal Comitato Triveneto per il S[alario al] L[avoro] D[omestico]. Padova, Febbraio 1975

Aborto di Stato
strage delle innocenti
processi esemplari
repressione per tutte!
Aborto di Stato
strage delle innocenti
sul sangue delle donne
si fanno affari d’oro
A Trento e a Firenze le insultano, le umiliano
A Trento e a Firenze terrore sulle donne
in Italia e fuori le trattan d’assassine!
Ma noi le conosciamo
siamo tutte noi
tutte abbiamo abortito
tutte sappiamo come!
Nei modi più cruenti
e più pericolosi
con la paura addosso
rischiando la galera
Ci sbattono in questura, ancora addormentate
ancora sanguinanti, è reato e non han pietà
sadismo, sfruttamento, razzismo, illegalità
ma che è una cosa sporca ormai lo sanno tutti
o è un figlio per lo Stato
o è aborto ed è reato
Attenti padroni, siamo milioni
Attento Stato
troppo a lungo ci ha sfruttato
Aborto di Stato strage delle innocenti.
(a cura di) Collettivo Internazionale Femminista, ibidem, pagg. 82-3. Come riportato nella nota, “questo è il testo della canzone composta dal Canzoniere Femminista del Comitato per il SLD (Salario al Lavoro Domestico, ndr) di Padova in seguito ai fatti di Firenze del 10 Gennaio 1975. È stata cantata in molte manifestazioni per l’aborto. Si trova nel disco “Canti di donna in lotta”. Collana dello Zodiaco, distribuzione Editoriale Sciascia. È reperibile anche in musicassetta”)

Presentazione

All’interno del mondo produttivo (o, per meglio dire, borghese) e culturale italiano si sente parlare spesso di “calo demografico”, “inverno demografico” e quant’altro di similare. Il timore di questi attori del dominio economico-culturale è la diminuzione quantitativa della manodopera da immettere nella produzione di merci – la cui possibile conseguenza è il crollo e la perdita dei privilegi di tali soggetti.

Restringere il calo demografico al solo aspetto economico, però, è molto riduttivo. Negli articoli che abbiamo presentato in queste ultime settimane, la questione demografica si inserisce nell’ampia e vasta questione del controllo dei corpi di coloro che vengono considerate, socialmente e biologicamente parlando, “donne-femmine”. Questo controllo riproduttivo, a nostro avviso, implica una serie di fattori di natura culturale, razziale, economica, sociale e scientifica che vertono in un controllo totalitario e totalizzante di tali corpi.

In questo frangente, la de-responsabilizzazione collettiva o, per essere ancora più specificu, del soggetto, sempre considerato socialmente e biologicamente parlando,“uomo-maschio”, dilaga a più non posso.

Attenzione però: quando parliamo di menefreghismo o disinteresse dell’uomo-maschio – anche quando dice, per esempio, “il problema riproduttivo riguarda soltanto le donne” -, non significa che la cosa non lo riguarda.

Anzi. Il non-interesse dell’ “uomo-maschio” sulla riproduzione – il cui pensiero patriarcale si poggia su fantomatiche basi culturali e biologiche (tipo essere competitivo, dominante, coraggioso etc) –, è apparente in quanto questo sente la necessità di controllare dei corpi non maschili, utilizzandoli / sfruttandoli sia nelle dinamiche lavorative (servizi, manifatturiero, agricolo e / o domestiche (in questo ultimo caso “aggratis”)) che nella riproduzione o meno di altri esseri umani – i quali, a loro volta, verranno inseriti all’interno del regime capitalistico odierno sotto forma di forza-lavoro.

Tale stato di cose, però, si mostra per quel che è: sfruttamento e violenza inumana e insostenibile a tutti i livelli verso l’individuo “donna-femmina”. Come scrive Maria Rosa Dalla Costa, “il grande rifiuto delle donne [di fare figli] in Paesi come l’Italia, richiede anche una risposta alla questione generale di cui stiamo discutendo. Esige un nuovo tipo di sviluppo in cui la riproduzione umana non sia costruita su un sacrificio insostenibile da parte delle donne, come parte di una concezione e di una struttura della vita che non è altro che tempo di lavoro all’interno di una gerarchia sessuale intollerabile.”1

All’atto che il patriarcato e tutti i poteri che sostiene e lo sostengono (statali, burocratici, politici, culturali, sociali, economici e religiosi) viene denudato come il re dell’omonima fiaba di Andersen, la sua reazione sarà ancora più subdola e ignominiosa – aiutato, in modo più o meno spudorato, dai partiti politici di sinistra e/o destra, associazioni di categoria piccole, medie e grandi, clero e mass-media.

Possedere un senso critico e capacità di analizzare le cose, oltre ad avere una sensibilità e capacità di ascoltare e supportare le altre persone, ci permette di respingere e rigettare tali poteri fondati su un diritto verticistico e borghese.

La misura è colma quindi. E nel presentare questo articolo scritto più di mezzo secolo fa dal Comitato Triveneto per il Salario al Lavoro Domestico, sottolineiamo, citando nuovamente Maria Rosa Dalla Costa (che militò, tra l’altro, in questo gruppo veneto), che “la questione della riproduzione umana, posta dal rifiuto delle donne di procreare, si sta trasformando nella richiesta di un altro tipo di sviluppo e cerca orizzonti completamente nuovi. Il concetto di benessere non è sufficiente. La richiesta è ora quella della felicità. La richiesta è di una formulazione dello sviluppo che apra alla soddisfazione dei bisogni fondamentali sulla cui soppressione è nato e cresciuto il capitalismo. Uno di questi bisogni è il tempo, contro una vita fatta solo di lavoro. Un altro è il bisogno della vita fisica/sessuale (soprattutto con il proprio e l’altrui corpo, con il corpo nel suo insieme, non solo con le funzioni che lo rendono più produttivo) contro il corpo come mero contenitore di forza-lavoro o macchina per riprodurre forza-lavoro. Un altro bisogno è quello della collettività (non solo con altri uomini e donne, ma con i vari esseri viventi che ora si possono incontrare solo dopo un faticoso viaggio fuori città) contro l’isolamento degli individui nel corpo della società stessa e della natura vivente nel suo complesso. Un altro bisogno è quello dello spazio pubblico (non solo i parchi e le piazze pubbliche o le poche altre aree consentite alla collettività) contro la chiusura, la privatizzazione e la continua restrizione dello spazio disponibile. C’è poi il desiderio di trovare un rapporto con la totalità della Terra come spazio pubblico e il bisogno di gioco, indeterminazione, scoperta, stupore, contemplazione, emozione…2

 

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Nell’archivio della lotta di Resistenza delle donne contro lo Stato e i padroni (adeguatamente sostenuti ovunque dalle varie chiese) c’è una sola fotografia che in compenso dice tutto: quella della curva del tasso di natalità che da due secoli circa scende inesorabilmente in tutti i paesi. Dal ‘64 in poi la caduta assume quasi un andamento verticale nell’Europa occidentale come in quella orientale come negli Stati Uniti: il tasso di natalità è sceso a zero e sotto zero. È a questo punto che gli Stati si danno convegno a Bucarest assumendo apertamente il “problema demografico” negli affari della politica internazionale. La conferenza di Bucarest è il primo confronto aperto di una strumentazione di politiche demografiche che dal dopoguerra in poi, pur avendo assunto svolte decisive, era stata pudicamente tenuta nell’ombra degli affari “riservati.

Sul “problema demografico” comunque il Movimento Femminista ha gettato ampia luce da molto prima della conferenza di Bucarest, nel senso che da tempo ha chiarito che il problema della “popolazione” esiste in realtà solo come problema di adeguata riproduzione di forza-lavoro e che il livello “ottimale” della popolazione è quello determinato non in relazione alle “risorse” mal al grado di investimento di capitale da un alto e al livello di sovversività della classe dall’altro. L’abbassamento del tasso di natalità comunque non diventa così immediatamente drammatico nei paesi che possono, attraverso l’emigrazione, acquistare forza lavoro dall’estero. Lo diviene nondimeno quando la lotta della stessa classe operaia emigrata rende “sconveniente” la sua presenza. Quanto alla sovversività della classe mettiamo in chiaro che esplode non solo dentro la fabbrica, ma dentro i ghetti nelle campagne, dentro le cucine come dentro le camere da letto, nella metropoli come nel cosiddetto Terzo Mondo. Che la classe è formata da donne e da uomini. Che è stata proprio la lotta di classe delle donne a determinare e rendere sempre più scoperto il problema demografico come crisi di piani di ricostruzione o sviluppo necessariamente ancorati ad alti livelli di procreazione e a lunghe ore di lavoro delle donne in casa, in fabbrica, in ufficio e in campagna. È alla luce di tutto questo che comprendiamo l’apparente contraddittorietà di politiche demografiche che vietano o liberalizzano gli anticoncezionali e l’aborto, promuovendo la sterilizzazione di massa o pagano le donne perché riprendano a fare figli.

Da parte degli USA il problema della popolazione diventa di sovrapopolazione all’interno del paese in particolare dagli anni ‘50 e progressivamente all’estero nelle aree “aiutate” degli Stati Uniti. Mentre all’interno le nuove generazioni dei ghetti crescevano e si moltiplicavano cominciando a dare fastidio, a organizzare sit-in, scioperi e rivolte, nel ‘59 il Comitato Presidenziale Draper sollevava la questione dello sviluppo economico nei paesi “aiutati” dagli USA e concludeva raccomandando tra le altre misure il controllo delle nascite nei paesi in esame, con l’aiuto e il sostegno del governo USA. Poco dopo l’Agency for International Development viene investita dall’incarico di diffondere il controllo delle nascite in America Latina, all’interno dell’Alleanza per il Progresso. Con Johnson la strumentazione relativa all’attuazione di tale controllo si farà sempre più massiccia: dove non arriva la pillola arriva la sterilizzazione. 3 La sterilizzazione procede in vari paesi spesso con l’aiuto delle missioni protestanti e cattoliche. Nel ‘71 l’Associazione di medici dello stato di Guanabara, nel Brasile, rivela che l’Agenzia Benfam, finanziata dall’AID, aveva sterilizzato circa un milione di donne nei sei anni precedenti.

Quanto alla “sovrapopolazione” all’interno del paese ci furono proposte di legge per subordinare l’assistenza alle famiglie al di sotto della cosiddetta linea della povertà alla limitazione delle nascite, ma nessuno osò proporre tali misure al congresso data la militanza del ghetto Nero. È cosa risaputa comunque che anche all’interno del paese la sterilizzazione procede attraverso ricatti o addirittura all’insaputa delle donne Nere e portoricane che entrano negli ospedali per una qualunque necessità ginecologica. In Europa, nei paesi dove è possibile un certo uso dell’emigrazione, lo Stato si concede un certo liberalismo in tema di anticoncezionali e di aborto. Questo almeno nei confronti delle “cittadine” non delle donne emigrate. La precarietà di tale liberalismo d’altronde, radicata proprio sul poter o non poter tranquillamente disporre di forza lavoro emigrata, si rivela anche oggi negli improvvisi ripensamenti di paesi come la Gran Bretagna e la Germania. Dove, come nei paesi dell’est europeo, le donne devono essere pesantemente e largamente impiegate in fabbrica e negli uffici perché non si può contare su forza lavoro immigrata, si tenta, come è avvenuto in particolare dagli anni ‘60, di sollecitarle e direttamente “obbligarle” alla procreazione, da un lato con incentivi economici dall’altro attraverso la restrizione delle misure anticoncezionali e dell’aborto. Dove, come in Italia, il potere di contrattazione dello Stato nei confronti dei suoi partner stranieri si è fondato essenzialmente sulla (s)vendita di manodopera, il cui costo doveva da un lato assicurarsi da parte delle donne livelli di procreazione eccezionalmente alti, dall’altro rovesciare sulle stesse quantitativi mostruosi di lavoro domestico gratuito. Conseguentemente non solo gli anticoncezionali sono arrivati tardissimo e viaggiano tuttora in un’aura semiclandestina, e l’aborto in quella del “reato contro la stirpe”, ma le donne in Italia a differenza che negli Stati Uniti, in Francia, in Gran Bretagna, in alcuni paesi dell’est, non sono mai riuscite a toccare direttamente con mano propria dei soldi per il lavoro di allevare figli. Ora però è proprio su questo che lo Stato si scontra affrontando la mobilitazione femminista in Italia sulla questione dell’aborto.

 

Aborto di Stato: strage delle innocenti.

Padova: 5 Giugno ‘73 il Movimento Femminista dà battaglia aperta sulla questione dell’aborto; è il primo processo politico per aborto rovesciato completamente contro lo Stato.

Nel Giugno del ‘73 il Movimento Femminista in Italia contava qualche centinaio di aderenti. Nato da poco registrava nella sua crescita tutta la difficoltà della condizione femminile: pochissimi soldi, pochissimo tempo, troppi “impegni familiari”. La decisione di gestire politicamente il processo di Padova fu più la reazione viscerale di chi è “toccato sul vivo”, l’urlo della bestia ferita, la decisione di farla finita a ogni costo, che la meditata programmazione di una battaglia di lungo periodo con calcolo di forze e di alleanze. Visto come si sarebbero più tardi mossi gli alleati, quella “prova generale del Movimento fu senz’altro quella che schiarì il campo e in cui le femministe dichiararono al pubblico” per la prima volta in termini inequivocabili cos’era la questione: “Difendono il feto per sfruttare il bambino” “O è un figlio per lo stato, o è aborto ed è reato”. Fin dai primi semplicissimi slogan gridati durante la manifestazione il discorso sul terrorismo in tema d’aborto tutto funzionale all’intimidazione e quindi al mantenimento di determinati livelli di sfruttamento, delle donne prima, e dei loro figli poi veniva fuori chiarissimo. Allora c’erano solo le donne e, dentro di loro, lo Stato. Il pubblico, i dibattitori di questioni politiche e sociali furono presi in contropiede; non ebbero tempo di riaversi dal sonno secolare sulla questione, non ebbero tempo di organizzare dibattiti e tavole rotonde; i giornali furono costretti a rivolgersi direttamente alle femministe e qualcosa di buono circolò pure sulla pagine di rotocalchi. Il processo si chiuse velocemente con l’assoluzione dell’imputata nonostante che “non si fosse pentita” e con tutte le femministe che dentro il tribunale con i pugni alzati gridavano “tutte noi abbiamo abortito!”

Un altro fatto fondamentale che schiarì il campo fu che allora le donne attaccarono subito la Chiesa. E anche la Chiesa fino allora oscenamente tranquilla sul sangue delle donne non si riebbe a tempo. Non ebbe modo di inviare i suoi untologhi e boiologhi a disquisire con gli psicologhi e sociologhi sul “diritto alla vita”. Tutti tacquero e fu una battaglia “pulita”. Lo Stato al suo posto di sfruttatore, i magistrati ai loro posti di boia, i preti a portare silenziosi l’estrema unzione, le donna a essere completamente sole nella loro battaglia come da sempre nella loro persecuzione. Più tardi alcuni boia impietositi si sarebbero detti disposti in certi casi ad assolvere…ma si sarebbero scoperti in fondo alle intorpidite coscienze dei problemi morali…e “se la donna avesse voluto abortire all’ottavo o al nono mese?”

Già qualcun altro aveva avuto problemi sul sesso degli angeli.

A Padova quel 5 Giugno arrivarono donne da tutte le parti d’Italia. Per la prima volta si fece un corteo non autorizzato, per la prima volta il tribunale di Padova fu invaso da donne che sbeffeggiarono i magistrati, urlarono in aula contro di loro, donne che buttate fuori dall’aula dai carabinieri dovettero essere trascinate fuori dal tribunale a forza perché con i pugni alzati continuavano nell’atrio a gridare “abbiamo tutte abortito!” Fu quello un momento dantesco. A causa del baccano provocato, tutti gli scribacchini del palazzo di giustizia si erano affacciati dai cerchioni delle scale e guardavano giù le “forsennate” con i pugni alzati e le voci laceranti. La celere circondò le donne una volta buttate fuori e il commento “puttane” da parte dei celerini accompagnava tutto, dalla autodenuncia per aborto alla richiesta di soldi propri in mano alle donne per il lavoro di allevare figli.

 

Continua nella Seconda Parte

 

Note del Blog

1Dalla Costa Maria Rosa, “Capitalism and reproduction”, pubblicato sulla rivista “Capitalism Nature Socialism”, n. 4, Volume 7, Settembre-Dicembre 1996

2Ibidem

3Un esempio di queste politiche si sono avute in Perù. Vedere “Contraccezione in Perù” in “Non ci sono abbastanza risorse per tutti, quindi i meritevoli devono riprodursi: cosa c’è dietro le idee malthusiane”, Gruppo Anarchico Galatea, 28 Aprile 2023. Link