Gaza: la strada verso la carestia – Seconda Parte

Prima Parte

 

Israele aveva iniziato a invertire queste politiche dopo lo scoppio della prima intifada palestinese (Dicembre 1987). Negli anni successivi, erano diventati centrali per la strategia di contro-insurrezione [israeliana] la limitazione del valore nutrizionale pro capite e la creazione di insicurezza alimentare tra i palestinesi di Gaza

I cambiamenti sul campo erano stati incrementali. Nel 1989 Israele aveva imposto un controllo più severo sul flusso di lavoratori provenienti da Gaza, emettendo tessere magnetiche con informazioni codificate sul “background di sicurezza” del lavoratore, tasse e bollette di luce e acqua. Poco dopo, durante la prima guerra del Golfo, Israele aveva imposto quella che le Nazioni Unite e le organizzazioni per i diritti umani chiamavano “chiusura ermetica” della Striscia (un’ulteriore limitazione del movimento di persone merci). Nel 1994 lo Stato israeliano, tra la firma del primo e del secondo accordo di Oslo, aveva iniziato a costruire una recinzione lunga trentadue miglia e una strada di pattugliamento intorno al territorio.

Da allora, solo cinque passaggi collegano le due regioni, due dei quali funzionano solo in una direzione, consentendo l’ingresso di merci e persone da Israele a Gaza. Un sesto, il valico di Rafah, collega Gaza all’Egitto. Per tutti gli anni ‘90 erano state imposte restrizioni al numero di lavoratori che potevano entrare in Israele e alla quantità e al tipo di merci che potevano entrare a Gaza. In questo periodo la Linea Verde, il confine riconosciuto a livello internazionale tra Israele e i Territori palestinesi occupati, era stata trasformata da confine “normalmente aperto” a confine “normalmente chiuso”.

All’indomani della seconda intifada palestinese (Settembre 2000), Israele aveva fatto un completo dietrofront rispetto alle politiche attuate alla fine degli anni Sessanta e Settanta. Come parte dei suoi sforzi nel reprimere la resistenza, l’esercito aveva distrutto le fattorie, radendo al suolo più del 10% dei terreni agricoli di Gaza e sradicando più di 226.000 alberi. In questo periodo, le forze militari israeliane avevano anche consolidato il controllo dell’aria e del mare di Gaza, bombardando l’aeroporto – costruito nel 1998 come parte degli accordi di Oslo – e distruggendo, nel 2002, un porto marittimo che un consorzio franco-olandese stava costruendo come parte degli accordi raggiunti con il Memorandum di Sharm-El-Sheikh. Israele aveva anche limitato le aree in cui i palestinesi potevano pescare – riducendo il tutto ad un piccolissimo tratto di mare al largo della costa, infliggendo così un terribile colpo ad uno dei pilastri del sistema alimentare gazese. Queste pratiche, unite alle restrizioni sempre più severe verso la circolazione di persone e merci, hanno portato ad una sostanziale insicurezza alimentare. Nel 2002 Clare Dyer, in un articolo per il British Medical Journal, aveva riferito che il numero di bambini di Gaza affetti da malnutrizione era raddoppiato nel giro di due anni.

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Nel frattempo, il Primo Ministro Ariel Sharon iniziava a riconoscere che non era più possibile dispiegare centinaia di soldati israeliani per proteggere gli ottomila coloni ebrei nella Striscia. Pensava, inoltre, che attuando un “piano di disimpegno” unilaterale, [a livello internazionale] sarebbe stato visto come una de-occupazione di Gaza. Questo, a sua volta, avrebbe contribuito a separare Gaza dalla Cisgiordania nell’immaginario collettivo e avrebbe permesso ad Israele di fortificare i suoi insediamenti in Cisgiordania.

Nel 2005 il governo israeliano aveva smantellato gli insediamenti illegali a Gaza, dislocando le sue truppe al confine. Allo stesso tempo, aveva intensificato il controllo a distanza dell’enclave, costruendo basi militari appena fuori dalla Striscia, installando mitragliatrici controllate a distanza sulle torri di guardia, aumentando l’uso di droni e stabilendo una zona cuscinetto larga dai 150 ai 500 metri – restringendo i terreni agricoli e imponendo ai contadini di coltivare colture a foglia corta come spinaci, ravanelli e lattuga, presumibilmente per evitare di bloccare la visuale dei soldati.

In questo periodo, Israele aveva iniziato a redigere i prodotti che non potevano essere importati a Gaza, imponendo severe restrizioni ai beni commerciali e umanitari. Nel 2006, quando il Centro palestinese per i diritti umani e altre organizzazioni di Gaza avevano sottolineato come le norme israeliane creassero carenze di farina, latte artificiale e medicine, Dov Weisglass, consigliere del primo ministro israeliano, aveva spiegato la politica del governo: “L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, non farli morire di fame”. Anche se queste restrizioni hanno aumentato la povertà e generato l’insicurezza alimentare, il governo di Gerusalemme si è assolto da ogni responsabilità. In linea con la formulazione del “piano di disimpegno” unilaterale israeliano – il quale afferma che dopo il ritiro delle truppe “non ci saranno basi per sostenere che la Striscia di Gaza sia un territorio occupato” – il procuratore generale dello Stato israeliano aveva sostenuto che Israele non avesse più alcun dovere come potenza occupante.

In realtà, Israele ha continuato a esercitare le sue prerogative controllando i confini. Dopo la conquista di Hamas della Striscia di Gaza (Settembre 2007), lo Stato israeliano ha formalmente imposto un blocco, isolando 1,5 milioni di residenti in una regione che era già tra le più densamente popolate del pianeta. Come parte delle linee guida del blocco, il gabinetto di sicurezza israeliano ha dato istruzioni all’esercito e ad altre agenzie di “ridurre la fornitura di carburante ed elettricità”. Solo i beni essenziali per la sopravvivenza sarebbero stati autorizzati ad entrare.

Israele non ha di certo nascosto i suoi sforzi per creare [i prodromi e sviluppare la] malnutrizione a Gaza. Come scritto lo scorso Dicembre, Sara Roy ha citato un cablogramma inviato dall’ambasciata statunitense a Tel Aviv al Segretario di Stato il 3 Novembre 2008: “Come parte del loro piano generale di embargo contro Gaza, i funzionari israeliani hanno confermato in diverse occasioni [ai loro omologhi statunitensi dell’ambasciata] che intendono mantenere l’economia gazese sull’orlo del collasso, senza spingerla oltre il limite”. È stato consentito l’ingresso solo dei beni di prima necessità, soprattutto attrezzature mediche, medicinali e prodotti igienici e alimentari essenziali. Tra gli alimenti vietati c’erano il cioccolato, il coriandolo, l’olio d’oliva, il miele e alcuni tipi di frutta, definiti da Israele come “articoli di lusso”.

La quota di carne fresca per l’intera popolazione è stata fissata a trecento vitelli a settimana. Nel 2008 un’azienda agroalimentare di Gaza aveva presentato una petizione alla Corte suprema israeliana per contestare quest’ultima restrizione. Il procuratore generale dello Stato, però, aveva risposto che i calcoli del governo si basavano sulle esigenze umanitarie dei residenti di Gaza – e che quindi il consumo di trecento vitelli a settimana fosse giusto. In linea con la sua lunga tradizione in materia di diritti umani fondamentali dei palestinesi 1, la Corte non era intervenuta.

Poco dopo, l’organizzazione per i diritti umani Gisha – dove una di noi, Muna Haddad, ha lavorato come avvocata – aveva iniziato una battaglia legale durata tre anni e mezzo per declassificare quei documenti che mostravano come Israele avesse ideato una serie di formule matematiche per determinare le quantità e i tipi di cibo permessi a Gaza. Nel 2012 il gruppo aveva ottenuto la divulgazione di un documento del Ministero della Difesa, basato su un modello prodotto dal personale del Ministero della Salute, chiamato “Consumo di cibo nella Striscia di Gaza – Red Lines”. Il documento include tabelle e grafici che suddividono il consumo giornaliero di cibo per sesso ed età e calcola l’apporto calorico minimo che consentirebbe “un’alimentazione sufficiente per la sussistenza senza lo sviluppo di malnutrizione”.

 


“Diapositiva 7: Energia (calorie) e porzione giornaliera di cibo (in grammi) nella Striscia di Gaza secondo la scala del Ministero della Salute, suddivisa per età e sesso”

 

Il documento israeliano ipotizzava che i palestinesi di Gaza avrebbero potuto importare solo quantità limitate di “generi alimentari di base” – come farina, riso, olio, frutta, verdura, carne, pesce, latte in polvere e latte per bambini – con settantasette camion al giorno. Aggiungendo le medicine, le attrezzature mediche e i prodotti per l’igiene e l’agricoltura, il numero di camion autorizzati a entrare ogni giorno, per cinque giorni alla settimana, raggiungeva le 106 unità – senza contare i sessanta camion di grano alla settimana che scaricavano la materia prima attraverso un nastro trasportatore presso il valico di Karni.2 Questi calcoli davano per scontato che il cibo che entrava a Gaza sarebbe stato distribuito equamente tra la popolazione, un’ipotesi senza precedenti e che non aveva basi storiche e geografiche. Lo Stato israeliano aveva anche ipotizzato che solo il 10% del fabbisogno alimentare della popolazione palestinese sarebbe stato soddisfatto dalla frutta e verdura prodotta a Gaza – un’ammissione implicita di come lo Stato fosse arrivato a controllare le vite dei palestinesi.

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Questi calcoli si basavano su “tempi regolari”. Eppure, in ogni grande ciclo di violenza – e ce ne sono stati cinque dal 2008 -, Israele ha abbassato drasticamente il “minimo”, provocando dei picchi di malnutrizione. A più di due settimane dall’inizio della guerra del 2008-2009, “Human Rights Watch” aveva riferito che “i panifici non avevano ricevuto farina di grano dall’inizio dell’operazione di terra di Israele, e solo nove dei quarantasette panifici di Gaza erano operativi”. Lo stesso Agosto, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) aveva documentato che il 75% circa della popolazione di Gaza era considerata insicura dal punto di vista alimentare. Le cause principali erano “l’aumento della povertà, la distruzione delle risorse agricole e l’inflazione dei prezzi dei principali prodotti alimentari”. Questa guerra, aggravata dal blocco imposto da Israele, aveva provocato “un graduale cambiamento” nella dieta dei residenti di Gaza, passando da alimenti ricchi di proteine ad alimenti a basso costo e ricchi di carboidrati, “che possono portare a carenze di micro-nutrienti, in particolare tra i bambini e le donne in gravidanza”.

Nel 2010 la Mavi Marmara, la nave ammiraglia di una flottiglia pilotata da attivisti filo-palestinesi che trasportava 10.000 tonnellate di aiuti, aveva tentato di sfidare il blocco e di portare aiuti umanitari a Gaza. Il 31 Maggio le forze israeliane avevano attaccato la nave e ucciso dieci degli attivisti a bordo, suscitando un’indignazione diffusa. Alcune settimane dopo, nella speranza di migliorare l’immagine del Paese, il gabinetto di sicurezza aveva emanato un piano per allentare le restrizioni sui beni civili che potevano entrare a Gaza. Ora erano consentiti articoli come ketchup, cioccolato e giocattoli per bambini, ma le autorità continuavano a proibire migliaia di articoli “a doppio uso” che potevano essere utilizzati sia per scopi civili che militari. L’elenco dei prodotti a duplice uso è ampio e vago e comprende betoniere, materiali necessari per riparare le barche da pesca, fertilizzanti, contenitori di plastica per le piante e pompe per innaffiarle e articoli necessari per garantire la qualità delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie – le quali devono essere riparate dopo ogni attacco subito. Nell’Ottobre 2021 il “Global Institute for Water, Environment and Health” e l’ “Euro-Mediterranean Human Rights Monitor” hanno avvertito il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che i residenti della Striscia non hanno praticamente accesso all’acqua potabile:

È ormai assodato che il 97% dell’acqua di Gaza è contaminata; una situazione resa ancora più allarmante da una grave crisi elettrica che impedisce il funzionamento dei pozzi d’acqua e degli impianti di trattamento delle acque reflue, portando l’80% circa delle acque reflue non trattate di Gaza ad essere scaricate in mare, mentre il 20% si infiltra nelle acque sotterranee. [… i civili palestinesi sono] “ingabbiati in una baraccopoli tossica dalla nascita alla morte… costretti ad assistere al lento avvelenamento dei loro figli e dei loro cari attraverso l’acqua che bevono e probabilmente dei prodotti che raccolgono dal terreno.”

In altre parole, ben prima dell’attuale guerra, Israele aveva reso la maggior parte degli abitanti di Gaza indigenti e denutriti. I bambini appena nati avevano sette volte più probabilità di morire rispetto a quelli nati ad un’ora di distanza a Beersheba o Tel Aviv. Nel 2021 il PIL pro capite di Gaza aveva raggiunto 1.050 dollari circa rispetto ai 52.130 dollari di Israele. Non sorprende, quindi, che nel 2022 l’UNRWA abbia fornito cibo a più di 1.139.000 rifugiati a Gaza – quattordici volte di più rispetto al 2000. A Dicembre l’UNRWA ha riferito che l’81% dei rifugiati nella Striscia viveva al di sotto della soglia di povertà nazionale. Ha anche rilevato che l’85% delle famiglie acquistava gli avanzi dal mercato e il 59% cercava assistenza o doveva prendere in prestito il cibo dai parenti. Più di tre quarti delle famiglie riducevano sia il numero di pasti giornalieri sia la quantità di cibo per ogni pasto.

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Dall’inizio dell’attuale guerra, Israele avrebbe potuto avere interesse a far arrivare gli aiuti ai palestinesi, se non altro per nascondere la violenza che i suoi militari stanno commettendo. Invece, con l’accelerazione della crisi alimentare a Gaza, il governo ha lanciato una campagna per eliminare l’UNRWA. Già a Gennaio, come ha recentemente riportato Amjad Iraqi, la sottocommissione della Knesset per la politica estera e la diplomazia pubblica aveva discusso su come gestire l’agenzia. Egli cita una ricercatrice del “Kohelet Policy Forum” di nome Noga Arbell: “Sarà impossibile vincere la guerra se non distruggiamo l’UNRWA, e questa distruzione deve iniziare immediatamente”.

Accusando dodici dipendenti dell’UNRWA di coinvolgimento diretto negli attacchi del 7 Ottobre e più di mille per aver collaborato vagamente con Hamas o la Jihad islamica palestinese, Israele ha prontamente chiesto a tutti i governi stranieri di defiscalizzare l’agenzia. Con 13.000 lavoratori a Gaza, l’UNRWA è il secondo datore di lavoro della Striscia dopo il governo di Hamas. Non solo fornisce servizi a oltre 1,78 milioni di rifugiati registrati, ma “pompa 600 milioni di dollari all’anno nell’economia della Striscia, che vale 2 miliardi di dollari, attraverso stipendi, pagamenti ai fornitori, aiuti alimentari, costruzioni e altre attività”, ha scritto l’ “International Crisis Group” in un rapporto pubblicato un mese prima dello scoppio della guerra:

Se i servizi dell’UNRWA e quei posti di lavoro dovessero scomparire, e con essi il potere d’acquisto che comportano, l’impatto si irradierebbe in tutta la società gazese. Molti perderebbero i loro mezzi di sostentamento, facendo crollare le piccole imprese e riducendo le nuove costruzioni. I rifugiati rimarrebbero senza assistenza sanitaria di base e i loro figli senza istruzione. Questi sono solo gli effetti più evidenti.”

La situazione attuale è molto più grave. Da Ottobre, ampie fasce della popolazione di Gaza vivono nelle scuole, nelle cliniche e in altri edifici dell’UNRWA, facendo affidamento sull’agenzia sia per guadagnarsi da vivere e sia per avere cibo e riparo per sopravvivere. L’Unione Europea ha recentemente dichiarato di non aver ricevuto da Israele prove concrete a sostegno delle sue accuse contro il personale dell’UNRWA, ma il nuovo bilancio degli Stati Uniti ha comunque defiscalizzato l’agenzia per il prossimo anno.

Nel frattempo, il 24 Marzo Lazzarini ha riferito un’informativa delle autorità israeliane all’agenzia: “non approveranno più alcun convoglio alimentare dell’UNRWA verso il nord”. In un’intervista ad Al Jazeera, Sam Rose, direttore della pianificazione dell’UNRWA, ha sottolineato come questa decisione avrebbe avuto implicazioni “drammatiche”: “semplicemente moriranno più persone”. Come se non bastasse, negli ultimi tre mesi i manifestanti israeliani, guidati dai coloni della Cisgiordania, evidentemente insoddisfatti della devastazione già operata da Israele, hanno deciso di bloccare le consegne di aiuti al valico di Kerem Shalom. Ad ogni nuovo sviluppo, ci si può solo chiedere cosa intende fare Israele nell’annientare la popolazione di Gaza e rendere impossibile la ripresa della regione.

 

Note

1Vedasi il libro di David Kretzmer e Yaël Ronan, “The Occupation of Justice: The Supreme Court of Israel and the Occupied Territories”, seconda edizione (Oxford University Press, 2021).

2Nell’originale viene riportato che il numero di camion autorizzati fosse arrivato a 118. Leggendo il documento di Gisha, invece, si vede come la cifra si sia mantenuta sulle 106 unità, fino ad arrivare a 131 nel periodo Novembre 2007-Gennaio 2008.