Argentina: “Il cosiddetto neoliberismo e i suoi falsi critici” – Prima Parte

Traduzione dall’originale “Argentina: “So-Called Neoliberalism and Its False Critics

Il 10 Dicembre, il cosiddetto “anarco-capitalista” Javier Milei si è insediato alla presidenza dell’Argentina, dopo aver promesso, durante la campagna elettorale, l’eliminazione della Banca Centrale Argentina e il rovesciamento dell’establishment politico. Cosa succede quando un “anarco-capitalista” prende il potere?

Come abbiamo sempre sottolineato, non esiste l’ “anarco-capitalismo”. L’idea che le gerarchie create dal capitalismo possano essere compatibili con l’aspirazione anarchica nell’abolizione delle disparità dei poteri imposti, è altrettanto contraddittoria quanto l’idea di unu anarchicu a capo di un governo. Ci sono capitalisti e ci sono presidenti – e praticamente tutti i presidenti sono [capitalisti]; ma nessunu anarchicu si abbasserebbe ad essere un presidente o un sostenitoru del capitalismo.

Dopo il voto della Brexit e l’elezione di Donald Trump, i politici dell’estrema destra hanno ottenuto una serie di vittorie elettorali presentandosi, in modo falso, come dei ribelli contro l’élite al potere1, sfruttando il malcontento che ribolle e il modo con cui i liberali e gli esponenti della sinistra si sono associati alle istituzioni dominanti. Sarebbe impossibile per i politici dell’estrema destra dipingersi come ribelli – se non fosse che la destra e la sinistra hanno collaborato nel schiacciare lu anarchicu e altri movimenti sociali che, altrimenti, avrebbero fornito un esempio di come sia la vera ribellione. La vittoria elettorale di un “anarco-capitalista” è l’ultimo capitolo di questa storia. Non sorprende che, nella pratica, l’ “anarco-capitalismo” non porti all’anarchismo ma, semmai, al capitalismo. Invece di abolire la Banca Centrale, il primo atto di Milei è stato quello di nominare l’ex presidente della suddetta come ministro dell’Economia. Nei primi giorni di mandato, Milei ha annunciato alcuni tagli all’interno del governo: fermerà i nuovi progetti infrastrutturali, licenzierà i dipendenti statali, taglierà i sussidi per l’energia e i trasporti alle persone consumatrici, abolirà metà dei ministeri federali e svaluterà il peso argentino – intensificando l’inflazione e producendo quasi certamente una recessione. Con il nuovo tasso di cambio del governo, il reddito medio annuale argentino sarà di soli 6300 dollari.

Ma non si tratta di sbarazzarsi del governo – semplicemente si eliminano tutti gli aspetti che potrebbero facilitare gli impatti del capitalismo sulla gente comune. Il governo di Milei non ridurrà l’apparato repressivo dello Stato. La sua ministra della Sicurezza, Patricia Bullrich, un altro membro di lunga data dell’élite politica, si è impegnata nel mobilitare la polizia per reprimere lu manifestanti. Bullrich ha annunciato la sua intenzione di addebitare allu organizzatoru e allu singolu manifestanti i costi della polizia durante le manifestazioni. Poiché saranno le autorità a decidere i costi della polizia necessari per ogni manifestazione, questa politica consentirà alle forze dell’ordine di controllare la gente comune nello stesso modo in cui gli “anarco-capitalisti” accusano i socialisti di fare (dove quest’ultimi vengono tacciati dai primi di essere autoritari, controllori e nemici dei singoli, ndt). [La ministra, inoltre,] intende introdurre nuove forme di repressione, armando le autorità per l’immigrazione e i servizi di protezione dell’infanzia contro coloro che partecipano alle proteste.

Per capire meglio come lu veru anarchicu vedono la situazione in Argentina, abbiamo intervistato lu compagnu di “La Oveja Negra” e “Cuadernos de Negación”, due progetti associati alla Biblioteca e all’Archivio Alberto Ghiraldo della città di Rosario. [Questu compagnu ci] raccontano i decenni di lotta sociale e la ristrutturazione economica che ha creato le condizioni per l’ascesa al potere di Javier Milei. Per saperne di più, potete leggere “Ritorno al futuro”, il primo articolo che abbiamo pubblicato sulla vittoria di Milei, o questa intervista con il progetto editoriale anarchico “Expandiendo la Revuelta”.

“Né dittatura né democrazia. Viva l’anarchia!”. Uno striscione durante una manifestazione nel 2008.

 

In che modo Milei è una continuazione e una diversità della vecchia estrema destra? Perché ha vinto le elezioni?

Abbiamo recentemente pubblicato un libro intitolato “Contro il liberalismo e i suoi falsi critici”. Abbiamo iniziato a lavorarci poco più di un anno fa e quando l’abbiamo finito, Milei stava già per vincere le elezioni presidenziali. È stato tutto molto veloce: è diventato presidente dopo soli due anni di campagna elettorale e di retorica riguardo il “bruciare la banca centrale” o “porre fine all’ideologia di genere”.

Il nostro intento – nel libro – era quello di affrontare l’emergere del fenomeno liberal-libertario in Argentina e di altre espressioni della “destra alternativa” (alt-right); alla fine lo abbiamo pubblicato nel bel mezzo della campagna elettorale. Abbiamo viaggiato e presentato il libro in alcune città argentine e a Santiago del Cile. Si tratta di un tema attuale e prioritario per noi e per le persone che abbiamo incontrato; abbiamo avuto molte discussioni approfondite. Evidentemente qualcosa sta cambiando non solo nel vecchio “movimento operaio” e in altre forme di lotta ma anche nel modo in cui si esprime il malcontento sociale – oltre all’esaurimento di un certo progressismo come garante della riproduzione capitalistica in questa regione.

Non vediamo Milei come un continuatore dell’ultradestra argentina, ma come un ultracapitalista. Abbiamo iniziato a prestare attenzione a lui anni fa, principalmente per questo motivo, per la sua difesa del capitalismo come economista liberale, e poi per le sue critiche al progressismo reazionario – che lo rendono molto simile ad altre persone dell’ “alt-right” mondiale. In generale riteniamo che non sia particolarmente utile confrontare il [presente con il] passato quando si cerca di capire qualcosa di nuovo.

A differenza dei protezionisti come Donald Trump, Javier Milei è un sostenitore del commercio internazionale.

Anche se tra le fila di questo nuovo fenomeno ci sono degli esponenti della vecchia destra, non è tale tratto ideologico a costituirlo. Un elemento importante, a questo proposito, è la vicepresidente Victoria Villaruel, un’avvocata che non solo ha difeso i militari dell’ultima dittatura, ma proviene da una famiglia di militari e ha organizzato delle visite nelle carceri [in cui erano rinchiusi] i partecipanti al genocidio – assassini del calibro di [Jorge Rafael] Videla, ufficiale militare argentino. [Ella] nega la scomparsa di 30.000 “desaparecidxs” – una cifra simbolicamente significativa.

Non è che queste persone non esistevano prima del “fenomeno Milei”; ma è la prima volta che persone [del genere] siano arrivate al governo attraverso dei canali democratici. Mentre scriviamo questo, non hanno ancora assunto le loro funzioni governative e già si nota una distanza tra loro. Invece di assegnare i ministeri della Sicurezza e della Difesa a questo settore filo-militare del suo governo, come era stato concordato tra l’altro, Milei ha nominato per questi ministeri i candidati alla presidenza e alla vicepresidenza di “Juntos por el Cambio”. Si tratta, rispettivamente, di Patricia Bullrich e Luis Petri. La prima ricopriva già tale incarico nel 2017, durante la presidenza di Mauricio Macri, quando la Gendarmeria nazionale assassinò il compagno anarchico Santiago Maldonado.

Un murale in onore di Santiago Maldonado che scomparì quando la Gendarmeria Nazionale Argentina attaccò una manifestazione contro il Gruppo Benetton. Il suo corpo, annegato, fu trovato settimane dopo.

Da parte sua, Milei è un economista di professione e deputato nazionale della Città di Buenos Aires dal 2021. Ha lavorato come consulente finanziario; il che significa che la sua carriera è [iniziata] nel mondo degli affari – non proviene da un settore militare o necessariamente di destra. A partire dal 2015 si è fatto conoscere neitalk show politici, sfoggiando uno stile provocatorio ed esprimendo un’ideologia liberale con toni conservatori (paleo-libertarismo). In campo economico si identifica con la “scuola austriaca”. Gli sono state offerte sempre più apparizioni nei media perché ricevevano ascolti elevati; sicché gli youtubers e influencer legati al liberismo e alle idee apertamente anti-femministe e reazionarie hanno iniziato a replicare la sua retorica. [Milei] ha iniziato a guadagnare slancio come figura politica dal 2018-19. Rafforzato dalle sue continue apparizioni sui media, la sua clamorosa retorica al Congreso Nacional contro le politiche ufficiali e la “casta politica” (una caratterizzazione che lo stesso Milei ha reso popolare in Argentina, riferendosi ai funzionari e ai politici di carriera) è diventato un punto di riferimento politico e potenziale candidato alle presidenziali, indirizzando verso il parlamento gran parte dell’indignazione [popolare] – in particolare contro i politici e la dolorosa situazione sociale che stiamo attraversando, fatta di povertà, fame e miseria.

Come è riuscito a vincere le elezioni? Incanalando questo malessere sociale, dato che lui e il suo avversario, Sergio Massa, hanno ricevuto la maggior parte dei voti come conseguenza del disprezzo degli elettori per l’altro candidato – una manifestazione di rifiuto piuttosto che di speranza in questo o quell’altro governo. La campagna [di Milei] è stata condotta, principalmente, attraverso i “social network” e le apparizioni sui media – e non attraverso i canali tradizionali della propaganda politica. Nelle strade si sono visti pochi manifesti di Milei rispetto ai numerosi video circolanti su internet che lo ritraggono. In Argentina sembra esistere un patto democratico implicito secondo cui “si esce [da questa situazione] votando”; [di conseguenza] la rabbia si manifesta alle urne. Il fenomeno Milei deriva da un disprezzo per la politica tradizionale – che non è riconosciuta come politica -, e da un alto grado di conformismo e fiducia nella rappresentanza e nel codice capitalista dell’ “ognuno per sé”. Tutta la politica “progressista” in questo Paese si è concentrata, come alternativa, nel cancellare la possibilità di rottura. Questa sinistra (in mancanza di una parola migliore) è diventata sempre più nazionalista, statalista e dirigista; non è più nemmeno riformista, se intendiamo il riformismo come una presunta strategia rivoluzionaria.

Alla fine di quest’anno (2023, ndt) in Argentina ci troviamo con un brutale peggioramento delle condizioni di vita, un’inflazione prevista al 200% all’anno e metà della popolazione che vive in povertà. C’è chi si chiede come mai sia la destra ad incanalare questo malessere. Anche noi ce lo chiediamo; ma non pensiamo che la ribellione debba “tornare a sinistra” – come alcuni stanno dicendo. L’ordine democratico funziona attribuendo la responsabilità della situazione sociale ai diversi governi che si alternano al potere e a secondo del contesto. Questo rende difficile formulare una visione complessiva e una critica che vada oltre gli errori di questo o quel presidente. Nello stesso momento in cui il progressismo è spaventato dalle aberrazioni pronunciate dai suoi avversari, le esagera con l’intento di differenziarsi e di mantenere il potere. Dietro i contrasti discorsivi, nella pratica non vi è una differenziazione così grande rispetto a coloro che esprimono un rifiuto del progressismo e sono arrivati al potere. Almeno, finora, questo è ciò che suggeriscono gli eventi in diversi Paesi, dove c’è stata solo un’alternanza al potere, senza un cambiamento profondo nelle politiche statali o una riforma strutturale dello Stato e del suo legame con il mercato. Lo si può osservare, ad esempio, in Bolivia, negli Stati Uniti, in Argentina e in Brasile, rispettivamente con Morales-Áñez-Arce, Obama-Trump-Biden, Fernández de Kirchner-Macri-Fernández-Milei e Da Silva-Rousseff-Temer-Bolsonaro-Da Silva. Il progressismo latinoamericano, pur puntando sulla minaccia destroide, ha portato solo moderazione – mentre le nuove o le vecchie destre, nonostante la loro aggressività, sono diventate più “progressiste” una volta salite al potere. Da parte nostra, vogliamo contribuire ad una prospettiva anti-capitalista, affrontando i problemi di questa regione come la povertà, la precarietà lavorativa, l’inflazione, lo sfruttamento delle risorse naturali, la repressione e questa alternanza democratica che garantisce la miseria e un funzionamento economico debole. Nonostante il trionfo elettorale del partito di Milei, “La Libertad Avanza”, alle elezioni presidenziali, non cerchiamo di promuovere alcun tipo di fronte comune elettorale contro di loro, né di essere un sostegno di piazza a tale frontismo politico.

 

“Nessun nome è dimenticato, nessun volto è dimenticato. Un murale ad una manifestazione che ricorda l’anniversario della dittatura militare, 24 Marzo 2021.

Continua nella Seconda Parte

Note del Blog

1Nel contesto italiano abbiamo avuto due esempi di neofascisti che cercarono di presentarsi come oppositori contro le elitè al potere. Il primo esempio è la Sicilia del 1944-45. Dopo l’operazione Husky e l’epurazione e deportazione di buona parte della dirigenza del Partito Nazionale Fascista, in Sicilia si insediò l’AMGOT, “l’Allied Military Government of Occupied Territory, dipendente dal Quartier Generale alleato del Mediterraneo, di cui era responsabile il generale Alexander che, in qualità di Governatore militare del territorio occupato, emanava i proclami e le ordinanze alla popolazione civile.” Nel Febbraio 1944, con gli accordi presi tra AMGOT e Governo del Regno del Sud, la Sicilia passò sotto la giurisdizione italiana. Dieci mesi dopo, nel Dicembre del 1944, il governo retto da Bonomi richiamò “dieci classi di riservisti per fare la guerra ai tedeschi e al fianco degli alleati”. La rivolta armata del “Non si parte”, scoppiata dopo la repressione sanguinosa avvenuta l’11 Dicembre 1944 a Catania, dilagò in tutta la Sicilia (Dicembre 1944 – Gennaio 1945). I motivi di questa rivolta erano di natura economica (distruzione del settore agro-industriale da parte dei bombardieri anglo-americani durante le fasi guerreggianti del 1940-1943, inflazione galoppante (causata dall’immissione di decine di miliardi di AM-Lire nella sola Sicilia) e il dilagare della cosiddetta “borsa nera”) e sociale (insofferenza contro un governo (prima occupante e poi “nazionale”) che si era dimostrato difensore del capitalismo rurale regionale e repressore contro chi chiedeva pane e casa). I fascisti, in tutto questo, parteciparono ai comizi pro-rivolta e combatterono contro le forze militari regie; ma costoro non ebbero un ruolo decisionale o di organizzazione delle sommosse durante questa rivolta – come ventilato dal Partito Comunista Italiana che definì il “movimento non si parte” rigurgito del fascismo, colluso “con certi gruppi del movimento separatista, sfruttando le tragiche condizioni di esistenza del popolo lavoratore […], vuole impedire la partecipazione alla guerra di liberazione dei siciliani” -, o si opposero a tutta la repressione subita dalla popolazione siciliana tra la fine di questa rivolta (Febbraio 1945) e le operazioni poliziesche-omicide dei governi De Gasperi (1946-1953). Fonte utilizzata: Giomblanco Francesco, “Alto tradimento. La repressione dei moti del non si parte. Dal carcere al confino di Ustica”, Sicilia Punto L, Ragusa, 2010, 212 p. Il secondo esempio,invece, avvenne a Reggio Calabria nel 1970-71. Dalla fine del secondo conflitto mondiale, Reggio Calabria, come città e territorio provinciale annesso, era in forte crisi sociale ed economica. Le cause di questo stato di cose erano da ricercarsi nella parziale ricostruzione post Terremoto del Dicembre 1908, un tessuto industriale inesistente, i voti di scambio e l’utilizzo dei fondi statali per arricchire determinate compagini economiche – legate al partito dominante, ovvero la Democrazia Cristiana. La scintilla della rivolta reggina scoppiò dopo la decisione governativa nazionale di collocare il capoluogo di regione a Catanzaro. Tutta una serie di partiti politici, con in testa la Democrazia Cristiana dell’allora sindaco reggino Pietro Battaglia e il Movimento Sociale Italiano e la CISNAL di Francesco “Ciccio” Franco, sostennero la rivolta perchè tale decisione nazionale venne vista come “uno scippo politico” ai danni di Reggio Calabria. Se queste furono le intenzioni dei democristiani e dei loro alleati di strada fascisti – a cui si devono aggiungere le presenze di soggetti quali Junio Valerio Borghese, Stefano delle Chiaie e Pino Rauti-, la rivolta reggina fu molto più eterogenea e vasta di come venne descritta dai giornali e / o da queste compagini politiche destroidi: si estese nei paesi vicini a Reggio Calabria (Gioia Tauro, Polistena, Bagnara, Scilla, Condofuri, Africo, Palmi, Siderno, Villa San Giovanni) e vide la partecipazione popolare stanca di uno Stato latitante e di una borghesia in combutta con il partito al potere (Democrazia Cristiana). La repressione avvenuta nel Febbraio del 1971 pose fine alla rivolta. I dirigenti missini di Reggio Calabria, con in testa Francesco Franco e Fortunato Aloi, vennero acclamati come eroi dal loro partito e utilizzarono, come propaganda elettorale, ciò che fecero in quei mesi nella città dello stretto – come dimostrato dalle elezioni nazionali successive per la sesta legislatura (1972-1976), in cui Aloi divenne deputato e Franco senatore. Fonte utilizzata: Itri Maria, “5 anarchici del sud. Una storia degli anni ’70”