Traduzione dall’originale “The Road to Famine in Gaza”
Centinaia di migliaia di persone a Gaza sono sull’orlo della carestia, un disastro umano che affonda le sue radici nella storia di Israele e nel suo utilizzo del cibo come arma [contro la popolazione palestinese].
Nei giorni successivi all’efferato attacco di Hamas del 7 Ottobre verso le basi militari, i kibbutz, le città e il festival musicale Nova, diversi alti funzionari israeliani hanno annunciato l’intenzione di privare la popolazione civile di Gaza dei suoi bisogni più elementari. All’epoca, oltre l’80% delle merci che entravano nella Striscia di Gaza proveniva da Israele – un’area mantenuta sotto uno stretto blocco per diciassette anni. Il 9 Ottobre, dopo due giorni di estesi bombardamenti aerei, il ministro dell’energia e delle infrastrutture del Paese, Israel Katz, ha annunciato di aver ordinato il taglio di acqua, elettricità e carburante verso la Striscia di Gaza. “Ciò che era”, ha detto, “non sarà più”.
Lo stesso giorno, il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha richiesto un “assedio completo” dell’enclave: “Non ci sarà cibo, non ci sarà carburante” (da allora il suo ragionamento è noto come: “stiamo combattendo gli animali umani”). Il 17 Ottobre il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha insistito sul fatto che “finché Hamas non rilascerà gli ostaggi in suo possesso… a Gaza non entrerà nemmeno un grammo di aiuti umanitari” ma soltanto “centinaia di tonnellate di missili dell’aviazione”. Il giorno successivo il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha posto la questione in termini altrettanto netti: “Non permetteremo l’assistenza umanitaria sotto forma di cibo e medicinali dal nostro territorio alla Striscia di Gaza”.
Queste dichiarazioni sono servite per privare la popolazione palestinese di Gaza “di oggetti indispensabili alla loro sopravvivenza, anche impedendo, intenzionalmente, le forniture di soccorso” – ai sensi dello Statuto di Roma, la definizione legale di “affamare i civili come metodo di guerra” è un crimine secondo il diritto internazionale. I giornali, la televisione e i social media israeliani, nel frattempo, erano saturi di chiamate alla distruzione totale o in parte della popolazione gazese: da “cancellare” o “piallare” Gaza fino a trasformarla “in una Dresda [dei giorni nostri]”. Il 13 Ottobre – il giorno in cui le autorità israeliane avevano ordinato a 1,1 milioni di persone nel nord di Gaza di evacuare le loro case entro ventiquattro ore – il presidente del Paese, Isaac Herzog, ha dichiarato pubblicamente che nella Striscia non c’erano “civili innocenti”.
Da allora, l’esercito israeliano ha bombardato a tappeto interi quartieri, uccidendo oltre 32.000 palestinesi – di cui 13.000 bambini. Questi numeri non includono le persone disperse sotto le macerie. Più di 74.000 residenti sono stati feriti. Il 70% delle infrastrutture civili è stato distrutto o danneggiato, lasciando molte aree inabitabili. A Novembre, oltre il 75% della popolazione di Gaza, circa 1,7 milioni di persone, aveva già abbandonato le proprie case; molti erano stati costretti a spostarsi ripetutamente.
L’esercito ha attaccato sistematicamente decine di strutture sanitarie a Gaza, lasciando un ospedale su tre parzialmente funzionante e costringendo i medici a operare in condizioni gravemente inadeguate – con un flusso costante di civili feriti, molti dei quali bambini. Questo livello di uccisioni e distruzioni in così poco tempo non ha precedenti nel XXI secolo. La relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi, Francesca Albanese, ha concluso all’inizio di questa settimana (fine Marzo, ndt) che “ci sono ragionevoli motivi per credere” che Israele abbia superato la soglia del genocidio.
Nel frattempo, molti aiuti sono rimasti bloccati. Come hanno avvertito le agenzie delle Nazioni Unite, gli aiuti che arrivano a Gaza sono “una mera goccia in un oceano di necessità”. Fino ad oggi (30 Marzo, ndt), Israele ha permesso, come media giornaliera, l’ingresso di 112 camion – meno di un quarto del numero di automezzi che entravano quotidianamente nei mesi precedenti al 7 Ottobre, quando le necessità erano meno acute. A metà Gennaio, dopo che erano emerse delle notizie secondo cui l’esercito israeliano stava ostacolando la distribuzione degli aiuti, soprattutto nelle aree a nord di Wadi Gaza – una valle fluviale arida che separa le metà settentrionale e meridionale della Striscia -, Netanyahu ha insistito sul fatto che il suo governo avrebbe permesso solo gli aiuti “minimi” necessari per prevenire una crisi umanitaria. Nelle sei settimane precedenti al 12 Febbraio, le autorità hanno negato l’accesso al 51% delle missioni solidali verso la Striscia di Gaza programmate dalle organizzazioni umanitarie
Queste restrizioni hanno gravemente ridotto la capacità degli operatori umanitari nel distribuire gli aiuti, minacciando al contempo l’incolumità del personale umanitario e la sicurezza dei siti stessi. Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), ha recentemente osservato che alla sua organizzazione, “la principale ancora di salvezza per i rifugiati palestinesi, viene impedito di fornire assistenza vitale nella parte nord della striscia di Gaza”. Dal 7 Ottobre sono stati uccisi almeno 171 membri del team UNRWA. In diverse occasioni le forze israeliane hanno sparato contro i camion dell’ONU che trasportavano le scorte alimentari – lungo dei percorsi che l’esercito stesso aveva definito sicuri -, distruggendo gli aiuti e sospendendo le distribuzioni. Altre volte le truppe israeliane hanno ucciso i palestinesi che aspettavano di ricevere gli aiuti: in un caso, divenuto noto come il “massacro della farina”, sono state uccise almeno 112 persone che si erano riunite per raccogliere la farina a Gaza City. Alla fine di Febbraio, l’UNRWA ha annunciato di essere stata costretta a sospendere la distribuzione degli aiuti nella parte nord della Striscia.
Israele non si è accontentato di impedire l’ingresso degli alimenti nella Striscia. Dall’inizio della guerra, lo stato israeliano ha anche distrutto più di un terzo dei terreni agricoli di Gaza, più di un quinto delle serre e un terzo delle infrastrutture di irrigazione – tutte fonti vitali per la produzione alimentare. Forensic Architecture sostiene che “la distruzione dei terreni e delle infrastrutture agricole a Gaza è un deliberato atto di ecocidio”. Ampie porzioni di terra sono state rase al suolo dai soldati che hanno utilizzato bulldozer D9 ed esplosivi per espandere la “zona cuscinetto” tra la Striscia e il confine israeliano – passando da trecento a circa ottocento metri, riducendo così l’area palestinese del 16%. Le forze navali israeliane hanno anche danneggiato o distrutto circa il 70% dei pescherecci di Gaza. Spinti dalla fame, alcuni pescatori escono ancora [oggi] in mare con piccole imbarcazioni, rischiando la furia delle forze navali israeliane; alcuni di loro, come riferisce l’associazione dei pescatori di Gaza, sono stati attaccati e uccisi.
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L’effetto di queste azioni è evidente. Da Dicembre le agenzie umanitarie hanno avvertito che i palestinesi delle due metà di Gaza sono a rischio carestia – la forma più catastrofica di insicurezza alimentare tracciata dalla Classificazione Integrata delle Fasi della Sicurezza Alimentare (IPC). In un rapporto sostenuto dalle Nazioni Unite e pubblicato il 18 Marzo, un comitato di esperti ha riportato una previsione terribile. “La carestia”, hanno riferito, “è ora prevista e imminente” per il 70% della popolazione del nord di Gaza – circa 210.000 persone – e “si prevede che diventi manifesta” entro Maggio. I testimoni descrivono che la gente del posto macinava i cereali usati per l’alimentazione animale – trasformandoli in farina – e, quando il cibo per gli animali finiva, i residenti davano da mangiare erba ai loro bambini emaciati.
Secondo l’UNICEF, la malnutrizione tra i bambini si sta diffondendo rapidamente e sta raggiungendo livelli senza precedenti. Al 15 Marzo, nel nord di Gaza, un bambino su tre sotto i due anni soffre di malnutrizione acuta; almeno ventisette bambini sarebbero morti di fame. Il mese precedente, gli screening nutrizionali condotti dall’UNICEF e da altre organizzazioni hanno rilevato, secondo le parole dell’organizzazione,
“che il 4,5% dei bambini nei rifugi e nei centri sanitari [nel nord della Striscia di Gaza] soffre di grave deperimento, la forma di malnutrizione più pericolosa per la vita, esponendo i bambini al più alto rischio di complicazioni mediche e di morte – a meno che non ricevano un’alimentazione e un trattamento terapeutico urgente.”
A causa degli attacchi di Israele, tuttavia, questo trattamento non è più disponibile a Gaza. L’UNICEF ha aggiunto che nel mese precedente alla pubblicazione del rapporto, “la prevalenza della malnutrizione acuta tra i bambini di età inferiore ai cinque anni nel nord della Striscia [era] aumentata dal 13% al 25%”.
A Marzo, gli screening condotti dall’organizzazione nella zona centrale della Striscia hanno rilevato che il 28% dei bambini sotto i due anni soffre di malnutrizione acuta; di questo gruppo, oltre il 10% presenta un grave deperimento. A Rafah, designata come una zona sicura e a ridossodel confine meridionale, gli operatori sono riusciti a consegnare più aiuti [rispetto ad altre parti]; nonostante questo, però, gli screening hanno mostrato che il numero di bambini sotto i due anni con malnutrizione acuta è raddoppiato, passando dal 5% di Gennaio a circa il 10% alla fine di Febbraio. (Nonostante il suo status nominale di zona sicura, Rafah è stata ripetutamente bombardata). Dello stesso gruppo preso in esame, il deperimento grave è quadruplicato nell’ultimo mese, superando il 4%.
Anche la malnutrizione tra le donne in gravidanza e in allattamento è aumentata rapidamente. A Febbraio 2024, il 95% di queste donne sta affrontando una grave povertà alimentare. Poiché le madri che soffrono di malnutrizione non sono in grado di produrre latte a sufficienza per l’allattamento al seno, un numero maggiore di neonati dovrà dipendere dal latte artificiale per sopravvivere. Ma il latte artificiale richiede acqua sicura e pulita – la quale non è disponibile per la maggior parte delle madri. In tal modo aumenta il rischio di infezioni e malnutrizione.
Tutte queste sofferenze sono state create dall’uomo – un risultato diretto dell’incessante bombardamento di Israele. Come la maggior parte delle carestie, è anche il prodotto di una storia più lunga. Dal 1967, quando Israele ha occupato per la prima volta la Striscia di Gaza, ha controllato il paniere alimentare palestinese, ingegnerizzando l’apporto nutrizionale dei suoi abitanti e usando il cibo come arma per gestire la popolazione. Per decenni, Israele ha sistematicamente danneggiato la capacità della Striscia nel produrre i propri alimenti, diminuendo l’accesso all’acqua potabile e agli alimenti. Comprendere queste politiche a lungo termine è fondamentale per dare un senso alla carestia che si sta verificando oggi a Gaza.
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La Striscia di Gaza è una regione piatta, stretta e arida che si estende per circa venticinque miglia lungo la costa del Mediterraneo. Quando Israele l’ha occupata, vivevano almeno 385.000 palestinesi, di cui il 70% circa erano rifugiati, fuggiti o espulsi dalle loro case durante la Nakba (catastrofe) del 1948. Israele, come ha scritto una di noi, Neve Gordon, in uno studio del 2008 sull’occupazione, “ha immediatamente assunto il controllo di tutti i principali servizi pubblici, come l’acqua e l’elettricità, e ha gestito il benessere, l’assistenza sanitaria, la giustizia e i sistemi educativi.” (pag. 9)
Inoltre, [Israele] ha introdotto una serie di meccanismi di sorveglianza per gestire la popolazione del territorio occupato. Le autorità israeliane hanno censito televisori, frigoriferi, stufe a gas, bestiame, frutteti e trattori; ispezionato e spesso censurato libri di testo scolastici, romanzi e giornali; inventariato dettagliatamente fabbriche di mobili, sapone, tessuti, prodotti a base di olive e dolciumi; usato immagini satellitari e aeree per monitorare la costruzione di case, edifici pubblici e aziende private; raccolto dati demografici in tutta la regione, compresi quelli relativi alle aree urbane rispetto a quelle rurali e dei rifugiati rispetto ai residenti permanenti. Hanno esaminato il tasso di mortalità infantile, il tasso di crescita della popolazione, i livelli di povertà, il reddito pro capite e le dimensioni e la composizione della forza lavoro: età, sesso e settore di occupazione. Hanno anche prestato molta attenzione alle dimensioni e al tipo di industria nei territori, così come alla quantità di terra coltivabile, i tipi di colture e il numero di bovini e pollame presenti. Per rafforzare il suo controllo, Israele ha anche monitorato il tasso di consumo privato e il valore nutrizionale del paniere alimentare palestinese.
I rapporti ufficiali redatti illustrano, ancor oggi, la velocità e il grado di sorveglianza imposto da Israele verso la società palestinese. In particolare e in modo sorprendente questi rapporti mostrano come, tra gli anni ’60 e ’70 il governo militare israeliano abbia cercato di aumentare l’apporto nutrizionale pro capite dei residenti di Gaza.
In uno studio, il Ministero dell’Agricoltura israeliano si vantava del fatto che una serie di interventi, tra cui i programmi di formazione professionale per gli agricoltori, avessero aumentato il consumo pro capite del palestinese gazese medio – da 2430 calorie al giorno nel 1966 a 2719 calorie nel 1973. In un altro rapporto si legge che nel 1968 Israele avesse aiutato i palestinesi della Striscia a piantare circa 618.000 alberi, fornendo agli agricoltori delle varietà di sementi migliorate (ortaggi e colture da campo). Però, contrariamente a quanto riportato dal Ministero dell’Agricoltura, il miglioramento del tenore di vita della popolazione palestinese non era stato il benevolo sussidio di una forza di occupazione: erano state le rimesse affluite nell’economia di Gaza a partire dai primi anni ’70 – dopo che Israele aveva incorporato oltre il 30% dei lavoratori dell’enclave nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura, estraendo così [il plusvalore dalla] manodopera a basso costo.
Gli archivi di Stato israeliani chiariscono che queste iniziative erano pensate per normalizzare l’occupazione e placare la popolazione. Nel 1973 molti dei rifugiati di Gaza vivevano ancora nei campi in condizioni squallide. Quell’anno Moshe Dayan, allora ministro della Difesa israeliano, aveva proposto di trasferire la popolazione palestinese in “nuove città, in appartamenti con acqua potabile e istruzione e servizi per i bambini”. La motivazione non era tanto umanitaria quanto strategica. “Finché i rifugiati resteranno nei loro campi”, spiegava Dayan, “i loro figli diranno che vengono da Jaffa o da Haifa; se si trasferiscono fuori dai campi, la speranza è che sentano un attaccamento alla loro nuova terra”.