Argentina: “Il cosiddetto neoliberismo e i suoi falsi critici” – Seconda Parte

Prima Parte

In che modo la vittoria di Milei rappresenta una continuità e discontinuità tra dittatura e democrazia in Argentina?

È difficile mostrare una panoramica della situazione argentina degli ultimi 50 anni. Ma possiamo provarci. Ci rifaremo al libro che abbiamo citato e ad un’intervista che abbiamo fatto qualche anno fa.

La fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 era stata un’epoca eccezionale per le lotte proletarie nella regione e, [più in generale,] nel mondo. Dagli anni ’30, la politica argentina era stata caratterizzata dall’alternanza tra governi dittatoriali e parlamentari. In questo caso, ci riferiamo alla dittatura della sedicente “rivoluzione argentina” (1966-1973), guidata dal generale Juan Carlos Onganía. Certo, parlare di dittatura militare è incompleto, e qualsiasi latinoamericano lo sa, dato che tutte queste dittature erano di tipo civile-militare.1Ma crediamo di poterci intendere. Le principali giornate di azione di quel periodo furono gli “-azos”: il “Tucumanazo” del Novembre 1970, il “Rosariazos” di Maggio e Settembre 1969 e, soprattutto, il “Cordobazo” del Maggio 1969. Si trattava di proteste che degenerarono in una situazione di insurrezione urbana, con barricate, controllo degli edifici e scontri nelle strade. Per non parlare dell’organizzazione e del coordinamento che tutte queste [situazioni] richiedevano.

Una barricata durante il Cordobazo, Maggio 1969.

Come accadde in molte altre regioni, quel livello di organizzazione e capacità di lotta della classe cedette gradualmente il passo alle sue principali debolezze: la politica e la lotta armata che avrebbero caratterizzato la regione a partire dal 1973 – anno del ritorno della democrazia e dell'[ex presidente Juan] Perón. In questo contesto, la lotta armata si intensificò, così come la risposta dello Stato, fino a raggiungere un punto di rottura il 24 Marzo 1976, quando le forze armate assunsero nuovamente il controllo dello Stato – e in quello che divenne noto come “Processo di Riorganizzazione Nazionale”. Riteniamo che sia risaputo come questa dittatura militare sia stata caratterizzata non solo dalle brutali torture e omicidi, ma anche dalla sparizione forzata di migliaia di persone, per lo più militanti, e, in molti casi, dal rapimento dei loro figli. Allo stesso tempo, molte persone sono dovute andare in esilio. Dopo la fine della dittatura nel 1983, il “ritorno alla democrazia” del governo di Raúl Alfonsín continuò una serie di politiche economiche e sociali che resero più difficili le condizioni di vita rispetto agli anni precedenti del governo militare. Nel 1989, in un contesto di iperinflazione, la popolazione saccheggiò i supermercati delle principali città del Paese e affrontò la polizia. Gli anni ’90 iniziarono con Carlos Menem alla presidenza; durante il suo primo anno di [presidenza] si verificò un altro ciclo di iperinflazione, che portò ad un nuovo brutale attacco al proletariato. Allo stesso tempo, [Menem] contribuì a convincere gran parte della popolazione sulla necessità dei “sacrifici” e “profondi cambiamenti”. In questo contesto, in Argentina si andò verso una profonda ristrutturazione del capitalismo – che portò a profonde privatizzazioni delle imprese pubbliche. Ciò causò migliaia di licenziamenti e ad un’intensificazione dello sfruttamento, mentre il mercato del lavoro venne modificato, producendo una crescente precarietà e rendendo la forza lavoro sempre più eterogenea in termini di riproduzione e condizioni di vita. Durante gli anni ’90, il livello di conflittualità nei diversi settori della forza lavoro era cresciuto di fronte alla ristrutturazione [capitalistica] e ai licenziamenti. Se nella prima metà di quel decennio le lotte mantenevano la stessa strategia sindacale dei decenni precedenti, nella seconda metà del decennio, invece, la figura della persona “disoccupata” iniziava a prendere forza – complice l’alto livello di disoccupazione. Le persone disoccupate non avevano spazi di lavoro o mezzi di produzione da sequestrare o sabotare; quindi scendevano nelle strade e nelle autostrade per interrompere la circolazione dei beni (compresa la merce ottenuta dalla produzione lavorativa). I primi picchetti erano stati organizzati al di fuori dei partiti e dei sindacati; erano dirompenti e si opponevano fermamente allo Stato. In seguito, i gruppi “piquetero”, come i movimenti sociali nel loro complesso, iniziarono un processo di crescente istituzionalizzazione, incanalando tutta la loro prospettiva [di lotta] nel richiedere [aiuto] allo Stato. Le loro organizzazioni potevano essere paragonate ai sindacati – che negoziano anch’essi con lo Stato, controllano la rabbia popolare e danno un prezzo alla vita, creando una dinamica di leader e sottopostu. Oggi tutto questo è rappresentato da un settore del peronismo guidato da Juan Grabois e chiamato “economia popolare”.

È stato solo nel 2001 che la crisi si è estesa ed è impattata sulle persone disoccupate e lavoratrici. A causa della dura situazione, molte persone lavoratrici, che si consideravano della classe media, erano state costrette a scendere in piazza. Il governo di Fernando de la Rúa, che aveva sostituito [Carlos] Menem al potere, non era riuscito a dare una risposta borghese intelligente alle pressioni delle organizzazioni internazionali, dell’opposizione peronista e di questa nuova e debole alleanza tra persone disoccupate e lavoratrici in lotta e i settori dell’autoproclamata classe media. Per tutto il 2001, il governo aveva attuato una serie di misure di “protezione”, chiedendo prestiti massicci per assicurare la continuità dell’attività bancaria. Ma questo non era bastato: all’inizio di Dicembre 2001 era stata approvata una nuova legge, il famoso “corralito” – che poneva severe restrizioni al prelievo di denaro dalle banche e varie limitazioni riguardante la conversione da pesos in dollari e viceversa. In questo modo molte persone avevano perso i loro risparmi. La parità peso-dollaro era finita; oggi un dollaro equivale a più di mille pesos argentini. Tutte queste condizioni erano esplose a metà Dicembre 2001. Il 19 Dicembre, in risposta al saccheggio generalizzato dei supermercati, il governo decretò finalmente lo stato d’assedio, militarizzando l’intero Paese e vietando alla gente di riunirsi nelle strade. È importante notare che tutte le proteste si svolsero in totale disprezzo verso questo decreto governativo. La polizia era riuscita ad arrestare alcune persone, ma non le migliaia [che si riversavano per strada]. Il 20 Dicembre, il presidente si era dimesso; nonostante la repressione e l’uccisione di 39 persone in tutto il Paese, la popolazione non aveva abbandonato le strade. La risposta era massiccia: si sbattevano pentole e padelle a tutte le ore, si organizzavano assemblee di quartiere nelle principali città del Paese, si attaccavano banche e istituzioni statali e i movimenti delle persone disoccupate vedevano crescere incredibilmente le loro organizzazioni e la loro forza, bloccando strade e vie in tutto il Paese. Fu in questo momento che iniziò a generalizzarsi lo slogan “che se ne vadano tutti” come ripudio totale verso i politici di ogni schieramento.2 Lo slogan “que se vayan todos”, che gli elettori di Milei stanno ora cantando, era stato intonato in tutta la regione in quei giorni, ma in un clima di lotta e solidarietà. Quando i giornalisti o i membri dei partiti di sinistra hanno sfidato i manifestanti, chiedendogli cosa sarebbe successo all’atto che se ne andavano tutti, la risposta è stata clamorosa: “che continuino ad andare via.” Gran parte dell’attuale rabbia sociale ha preso questo strano canale. Nel 2001 la rabbia contro i politici era caratterizzata da una prospettiva diffusa e irrazionale, ma con un rifiuto di fondo del capitalismo e basato sulla solidarietà, sui picchetti e sulle assemblee; buona parte dell’attuale malessere contro la “casta politica” si esprime in termini completamente capitalistici. Nonostante la loro assurdità e impraticabilità, espressioni come “dinamizzare la banca centrale” sono comode per il mantenimento dell’ordine rispetto alla “liberazione” della lotta sociale. Nel 2002, dopo le rivolte, la borghesia aveva cercato di organizzare una risposta, anche se in modo lento e disordinato, destituendo un presidente dopo l’altro fino a quando era subentrato Eduardo Duhalde, un figlio prediletto e popolare del peronismo – sospettato di essere un narcotrafficante e un assassino. Il governo di Nestor Kirchner (2003-2007) si era caratterizzato per essere un capolavoro del populismo peronista e latinoamericano. Grazie ad un contesto estremamente favorevole – dai prezzi internazionali delle materie prime ai salari completamente distrutti -, il governo aveva raggiunto la stabilizzazione economica. D’altra parte, si era assunto il compito di costringere tutte le organizzazioni sociali a schierarsi favorevolmente o contro il suo progetto politico. Le scuole popolari, gli spazi di base nei quartieri e i gruppi di giovani militanti si schierarono a favore del kirchnerismo. [Questi erano] incoraggiati dal suo presunto programma di rinnovamento, dalla promessa di stimoli economici e dall’immagine di un “governo [rispettoso] dei diritti umani” – dopo che questo riprese i processi contro i funzionari della Giunta del 1976 (un’altra grande operazione pubblica mediatica in quanto l’apparato repressivo dello Stato rimase intatto). In Argentina, le persone erano scomparse anche sotto la democrazia – migliaia erano state o assassinate nelle stazioni di polizia o in casi di “gatillo fácil” (polizia dal grilletto facile, ndt) oppure imprigionate e perseguitate per resistenza [a pubblico ufficiale]. Il governo di Cristina Fernandez de Kirchner aveva continuato le politiche del marito. Alcuni erano rimasti sorpresi dal fatto che la sua amministrazione avesse introdotto la legge antiterrorismo 3 e, al contempo, avesse legalizzato il matrimonio “egualitario” tra persone dello stesso sesso. Ma non si trattava di misure contraddittorie. Il progressismo è il progresso del capitale – per quanto si sforzi di apparire come il progresso della società contro l’offensiva capitalista.

Schieramento poliziesco a fianco ad un camion con cannone ad acqua durante una marcia in memoria di Santiago Maldonado (2017)

Torniamo al cosiddetto neoliberismo e alla ristrutturazione capitalistica, riflettendo sulle continuità e discontinuità [dei regimi] dittatoriali e democratici argentini. Le cosiddette politiche neoliberiste, applicate in Argentina e in altri Paesi dell’America Latina, non sono state solo la conseguenza delle ultime dittature civili-militari e della feroce repressione da esse attuate. Alcune delle caratteristiche di quello che viene per lo più identificato come neoliberismo – l’intensificazione della precarietà e la “flessibilizzazione” lavorativa, la privatizzazione di varie industrie e servizi, la crescente finanziarizzazione economica, la riduzione della spesa pubblica – sono state una conseguenza della precedente fase del capitalismo che oggi molti desiderano – rappresentata dal peronismo in Argentina e dal cosiddetto “stato sociale” in altre parti del mondo. Vogliamo qui sottolineare le continuità non militari, ma democratiche e sempre capitalistiche, esposte nel libro che abbiamo appena pubblicato. La globalizzazione e la delocalizzazione dei centri di produzione sono stati tra gli aspetti più significativi di queste trasformazioni mondiali.
Il processo di ristrutturazione globale ha assunto forme diverse nei vari Paesi e ha impiegato diversi decenni per diffondersi. Come in Argentina, in molti altri Paesi la popolazione disoccupata è aumentata considerevolmente a causa della chiusura di varie industrie e settori le cui tecnologie stavano diventando obsolete in termini di produttività; la precarietà è aumentata [all’interno di quella grande porzione] di popolazione orientata, principalmente, nel settore dei servizi; mentre i salari di un piccolo numero di persone lavoratrici impiegate in settori tecnologicamente più avanzati e redditizi sono cresciuti o rimasti stabili.
I Paesi dove le industrie sono state delocalizzate hanno vissuto un’esperienza diversa, fornendo enormi quantità di manodopera ad un prezzo migliore per la borghesia globale, come è accaduto in diversi Stati asiatici.
La massa di merci a livello globale non ha smesso di crescere, anche se non possiamo dire lo stesso per i salari o i livelli di occupazione nel loro complesso – specie se guardiamo i Paesi separatamente. In questo modo, il ruolo dello Stato si è spostato; l’assistenza sociale alle persone disoccupate o a quelle precarie, che non hanno accesso a un salario sufficiente, si è diffusa in gran parte del mondo. Oggi, in Argentina, non c’è una disoccupazione massiccia, ma per migliaia e migliaia di persone un lavoro non è sufficiente per sopravvivere. È sorprendente vedere l’accettazione del discorso economico liberale in Argentina; fino a meno di un decennio fa, era una parola negativa per la maggioranza della popolazione. La crescita della nuova destra liberale deve essere compresa all’interno di un contesto dove i progressisti non sono riusciti ad affrontare i problemi sociali. La destra liberale evidenzia questi fallimenti nei suoi discorsi, in linea con i propri incantesimi: inclusione sociale, ridistribuzione della ricchezza, espansione dei diritti. D’altra parte, la povertà, il lavoro precario, la disuguaglianza e la violenza – violenza repressiva, violenza criminale come quella legata al traffico di droga e violenza di genere – sono in aumento. Le misure comunemente associate al neoliberismo sono state imposte in tutto il mondo durante la ristrutturazione capitalistica iniziata negli anni Settanta. In Argentina, la ristrutturazione globale ha assunto una forma specifica, che si è consolidata negli anni ’90, con una riforma dello Stato e del modo di accumulazione locale. Questa situazione ha avuto luogo all’interno di un quadro di ferrea disciplina di mercato sulle persone lavoratrici, esercitata principalmente dalla “convertibilità” [una parità fissa tra il peso argentino e il dollaro statunitense], dalla liberalizzazione del commercio e dalle privatizzazioni. Questa disciplina è stata imposta, come abbiamo detto, dopo due periodi di iperinflazione (1989 e 1991) che hanno distrutto i salari. Il modo di accumulazione capitalista in Argentina è basato sulla fornitura di prodotti a basso valore aggiunto (compresi i prodotti primari come la soia e anche i loro derivati industriali, come olio, farina e pellet) all’interno del mercato mondiale.
Sebbene l’Argentina sia storicamente un Paese esportatore di prodotti agricoli, negli anni ’90 questi settori si sono espansi e modernizzati in modo significativo, aumentando la loro produttività. Questo processo si è consolidato solo nel decennio successivo, dopo la crisi del 2001 e la fine della “convertibilità”. La ripresa economica e politica durante il kirchnerismo è derivata dalla ristrutturazione della produzione, dall’allentamento della disciplina di mercato che la “convertibilità” comportava, dalle condizioni favorevoli del mercato mondiale e dal fatto che i salari reali erano miseri all’inizio del processo; sono cresciuti progressivamente negli anni successivi, pur non riuscendo a raggiungere il livello del ciclo economico precedente – e scendendo successivamente di nuovo qualche anno dopo, fino ad arrivare alla situazione attuale.
Il periodo di Kirchner si è differenziato dal precedente soprattutto per la disciplina di mercato, che ha permesso al governo di adattarsi alle richieste sociali e alle oscillazioni dei mercati internazionali, intervenendo sul tasso di cambio e aumentando il prelievo fiscale e la spesa pubblica – attraverso le trattenute e la nazionalizzazione del segmento privato del sistema pensionistico. Una delle parti più consistenti di questa spesa pubblica era costituita dai sussidi per i carburanti, l’energia e i trasporti, di cui hanno beneficiato sia gli utenti privati che le imprese. Milei ha descritto i proprietari di queste aziende, che dipendono dalle politiche protezionistiche statali, come “imprenditori prebendari”, “empresaurios” o “empresucios”. Da una prospettiva rivoluzionaria, critichiamo qualsiasi visione o proposta industriale legata allo sviluppo delle forze produttive. Ma dal punto di vista dell’economia nazionale e della gestione del capitalismo locale, anche alle sue condizioni, è chiaro che sta funzionando male, considerando le ripetute recessioni, gli aggiustamenti e le crisi. Il kirchnerismo è stato promosso come una presunta re-industrializzazione del Paese, ma in realtà la matrice produttiva non ha subito grandi cambiamenti e la precarietà è persistita, crescendo notevolmente nell’ultimo decennio. La situazione è diventata insostenibile e i gestori del capitale parlano solo di sacrifici, più o meno graduali, ma comunque di sacrifici. Questo anno elettorale ha imposto un’interruzione del conflitto sociale e della riflessione critica; ma questi cambiamenti richiedono un ripensamento delle questioni di fondo. È tempo di insistere sulla necessità di una rottura.
Concretamente, al di là della questione di chi ha vinto le elezioni, ci troviamo di fronte ad un approfondimento della riduzione della spesa pubblica (in modo da ridurre il deficit fiscale), a brusche svalutazioni del peso (come già avvenuto), ai cambiamenti nella politica monetaria, alla riforma del lavoro e della previdenza sociale e ad altre politiche con un impatto immediato sul proletariato. Gli ultimi periodi di cambiamento nelle sale del governo sono stati anche momenti di aggiustamento economico.
Dovremo affrontarlo, non importa da chi provenga – ma la domanda che bisogna porsi è come siamo arrivati a questo punto. Non dobbiamo perdere di vista gli aggiustamenti precedenti e quelli in corso, né applicare una memoria selettiva che perpetui la logica democratica del “male minore”.

Polizia motociclista armata durante una marcia in memoria di Santiago Maldonado (2017).

 

Continua nella Terza Parte

 

Note del Blog

1Nella cosiddetta America Latina il termine “dittatura civile-militare” serve per sottolineare le responsabilità violente e repressive dell’esercito e l’accettazione di questo stato di cose da parte del mondo sociale ed economico (specie quello legato all’economia finanziaria). Nel caso argentino segnaliamo, con alcuni stralci, l’articolo “Perchè si dice che la dittatura è civile-militare?” (tit. originale: “¿Por qué se dice que la dictadura es cívico-militar?“) del collettivo argentino “La primera piedra”. Il collettivo argentino spiega che la dittatura civile-militare era tale in quanto si dovevano “eliminare tutte le organizzazioni politiche e distruggere i legami sociali che permettevano di generare una molteplicità di progetti collettivi. La scomparsa dei quadri politici (nell’ordine delle migliaia) era necessaria affinché l’Argentina si adattasse ai cambiamenti dell’accumulazione capitalistica internazionale. La repressione era necessaria per passare dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario. All’interno del settore “civilevi erano i settori ecclesiastici, imprenditoriali, proprietari di mezzi di comunicazione, politici e funzionari giudiziari che sponsorizzavano, sostenevano ed erano complici e responsabili dello sterminio. All’interno e all’esterno dello Stato, c’erano persone che fomentavano e generavano dei crimini contro l’umanità verso le persone lavoratrici delle fabbriche, studenti, attivistu e un gran numero di persone che si opponevano al terrore di Stato e all’installazione di un’economia nelle mani di pochi. […] Nello stabilimento General Pacheco della Ford fu creato un centro clandestino per tenere in prigionia i lavoratori dello stabilimento. Nello zuccherificio Ledesma di Jujuy, di proprietà di Carlos Blaquier, furono sequestrate 400 persone con il supporto logistico e la complicità degli imprenditori. […] molti settori della Chiesa sono stati complici dei militari: hanno collaborato nel trasmettere [ai militari] le informazioni delle organizzazioni familiari – che si erano appena formate -, [oltre ad] avvallare le torture, il sovraffollamento delle persone detenutedesaparecidxs e lo sterminio. Anche i politici che ricoprivano incarichi di governo, come José Alfredo Martínez de Hoz – che fu ministro dell’Economia ai tempi –, furono parte fondamentale della dittatura. Questi minimi accenni sono solo alcuni esempi del ruolo civile svolto dalla dittatura. Essi furono coinvolti nella pianificazione e nella complicità del genocidio. Oltre a questi, molti uomini d’affari e gruppi economici hanno beneficiato di un modello economico che ha danneggiato, e danneggia tuttora, la grande maggioranza della popolazione. Questi settori hanno dettato le politiche economiche da attuare durante il governo militare e negli anni successivi. I responsabili civili del genocidio sono quelli che ancora oggi (2018, ndt) rimangono nei settori dei poteri costituiti […] Gran parte della società ha accettato l’arrivo della dittatura civile-militare: alcuni settori per ignoranza e altri per totale complicità. […]

2Per una sintesi, seppur parziale, della situazione argentina di quel periodo storico, rimandiamo al seguente articolo: “L’autogestione come resistenza alla crisi”, Umanità Nova, 10 Maggio 2020. Link

3Nel Dicembre del 2011 il governo Kirchner modificò la legge anti-terrorismo del 2009, scatenando una pioggia di critiche da parte dei movimenti popolari e di lotta. Riportiamo alcuni estratti tradotti del “Coordinadora contra la Represión Policial e Institucional” (CORREPI) del Gennaio 2012 dal titolo “Argentina. Le leggi Antiterroristiche: dalla Dottrina della Sicurezza Nazionale alla “governance democratica con cooperazione”” (tit. originale: “Argentina: Leyes Antiterroristas De la Doctrina de la Seguridad Nacional a la “gobernabilidad democrática con cooperación” “) : “[…] La nuova riforma del codice penale, come è successo nel 2003, nel 2005, nel 2007 e nel 2009, è stata proposta e approvata in tempi record in modo da incontrarsi con le linee guida imposte dal Grupo de Acción Financiera Internacional (GAFI), un’agenzia “specializzata”, a livello internazionale, nell’assicurare i suoi piani di dominio. […] Verso i primi di Ottobre (2011, ndt), il GAFI sollecitava nuovamente il governo argentino nel fare progressi sulla promulgazione delle leggi antiterrorismo – come quelle emesse tra il 2003 e il 2009 […]il ministro della giustizia e dei Diritti Umani, Julio Alak, ha convocato una conferenza stampa per annunciare che l’Esecutivo aveva inviato al Congreso un nuovo pacchetto di leggi, adeguando[…] la legislazione nazionale ai più alti standard internazionali […]” Il giorno dopo la conferenza ministeriale, le principali rappresentazioni aziendali […] hanno applaudito alla misura e assicuravano il loro sostegno al governo […] Il progetto, che raddoppia le pene per qualsiasi reato quando l’intenzione dell’autore è quello di “terrorizzare la popolazione, costringere le autorità pubbliche nazionali ad astenersi dall’intervenire, compiere un atto grazie a governi stranieri o agli agenti di un’organizzazione internazionale”, è già legge ed è stata approvata dalla maggioranza kirchnerista […] Così, basta una definizione più concreta del concetto di“terrorismo” che i giudici e i governatori fedeli a Kirchner saranno ligi al loro dovere. E non abbiamo nulla da temere. […] Ora è “terrorismo internazionale” qualsiasi atto che ha l’intento di “terrorizzare la popolazione”, e niente fa più paura alla borghesia della classe operaia organizzata, unita e stabile. È “terrorista” chi cerca di “costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere un atto o a impedirglielo” e chiaramente si applica a qualsiasi movimento che richiede al governo una misura o un rinnegamento della stessa. […] L’incorporazione sistematica di leggi più repressive dimostra che […] le lotte aumenteranno e [le istituzioni economiche e politiche] vogliono essere pronte a difendere i loro privilegi. Le leggi antiterrorismo […] sono strumenti legali volti a disciplinare i settori e le organizzazioni che combattono il sistema. Lungi dall’essere una novità, sono un aggiornamento dello schema repressivo dello Stato – il quale risponde agli interessi imperialisti degli Stati Uniti e delle loro organizzazioni internazionali. Il loro scopo principale è isolare le lotte, intimidire chi si organizza ed eliminare la resistenza. […]”