L’inverno demografico, aziendalizzazione del mondo sanitario pubblico – con conseguente riduzione delle prestazioni gratuite -, leggi sempre più restrittive riguardo l’interruzione volontaria di gravidanza: è questo il quadro di crisi che si presenta attualmente nel cosiddetto Nord del Mondo.
Stati come Ungheria, Polonia, Russia e i 21 Stati statunitensi post Roe v. Wade, portano avanti delle logiche e pratiche contro i diritti riproduttivi delle donne socializzate.
La crisi economica, culturale e politica vigente fa da sfondo a questi deliri anti-abortisti. Nel nome della produzione capitalistica, la riproduzione degli esseri umani deve mantenersi costante. Un esempio è ciò che riportano due distinti articoli del giornale di Confindustria, “IlSole24Ore”: se l’inverno demografico non si arresta si avrà “uno squilibrio che non potrà non avere ricadute sul sistema lavorativo e previdenziale” e che “da qui al 2042 con gli attuali tassi di fecondità il nostro Paese (l’Italia, ndr) rischia di perdere per strada percentuali del Pil impressionanti, pari al 18%. Per non parlare delle pensioni che non potranno essere pagate perché i lavoratori saranno assai meno dei pensionati.”
Il capitolo che presentiamo, suddiviso in quattro parti, è tratto da “Donne, razza e classe”, scritto nel 1981 da Angela Davis.
L’autrice americana, partendo dall’Hyde Amendment del 1977 – una legge che impediva l’uso di fondi federali per pagare l’aborto (tranne nei casi in cui fosse in pericolo la vita della madre) e rendeva disponibile tale procedura medica a coloro che potevano pagarla -, e dalla sterilizzazione supportata dal Medicaid, metteva a nudo lo storico attacco contro i diritti riproduttivi delle “donne nere, portoricane, chicane e native americane, insieme alle loro sorelle bianche impoverite”.
Inoltre Davis criticava quellu attivistu per i diritti all’aborto che non vedevano le connessioni razziali e classiste, ripetendo gli stessi identici errori del passato e spacciando l’aborto e la sua legalizzazione come “una valida alternativa alla miriade di problemi posti dalla povertà. Come se avere meno bambini potesse creare più lavoro, salari più alti, scuole migliori, ecc.”
La realtà così mostrata, e che non riguarda solo gli Stati Uniti, è come il controllo sempre più pervasivo da parte degli Stati ed altri enti associati ad essi sia un qualcosa di così iniquo che ha portato da un lato a distruggere intere popolazioni considerate non-umane e potenzialmente pericolose – i casi degli Uiguri in Cina e i nativi (classificati come “selvaggi”) in Perù 1-, dall’altro, invece, ad aziendalizzare un servizio (l’interruzione volontaria di gravidanza) e rendendolo disponibile ad una piccola fetta della popolazione (abbiente, per la precisione). I gruppi religiosi-economici – come “Comunione e Liberazione” e tutte le sue sotto branche (Compagnia delle Opere in testa) nel caso italiano -, attraverso le manovre mediatiche, riescono a portare avanti le concezioni difensive riguardo la “famiglia” e “vita”. A costoro, credenti nel Dio cristiano e del Capitale, poco importa se intere famiglie, povere e non bianche nella maggior parte dei casi, finiscano sul lastrico e/o se determinate persone non possono accedere ai servizi pubblici sanitari gratuiti – di cui è compresa l’interruzione volontaria di gravidanza.
La violenza del dominio economico e istituzionale è così servita su un piatto d’argento. Il capitolo di Davis rappresenta una lezione vitale sulle derive razzistoidi ed esclusiviste (sociali ed economiche) delle politiche demografiche degli Stati – storicamente nemiche verso qualsiasi rivendicazione di giustizia universale.
==============================================================================
Estratto dal libro di Davis Angela, “Donne, razza e classe”, Edizioni Alegre, Roma, 2018, Capitolo 12
La campagna per il controllo delle nascite ha origine nel diciannovesimo secolo, quando le femministe rivendicarono per la prima volta la “maternità consapevole”. Le sue promotrici, bollate come radicali, furono oggetto della stessa denigrazione che colpì agli inizi il movimento delle suffragiste. La maternità scelta fu considerata una rivendicazione audace, oltraggiosa e bizzarra, soprattutto da chi sosteneva che le mogli non avessero diritto di sottrarsi alle necessità sessuali dei mariti. Alla fine ovviamente il controllo delle nascite, così come il diritto di voto alle donne, entrò a far parte del senso comune negli Stati Uniti. Eppure nel 1970, a un secolo di distanza, l’appello per un aborto legale e accessibile non è stato meno controverso della questione della maternità scelta.
Il controllo delle nascite, la possibilità di una scelta individuale, i metodi contraccettivi sicuri, così come l’aborto se necessario, sono tutti requisiti fondamentali per l’emancipazione delle donne. Siccome il controllo delle nascite è conveniente per le donne di tutte le classi e razze ci si sarebbe potuti aspettare che gruppi anche molto diversi tra loro avrebbero tentato di unirsi attorno a questo problema. Di fatto, al contrario, questo movimento è riuscito solo raramente a unire donne di diversa estrazione sociale, e solo in rare occasioni le leader hanno dato voce alle preoccupazioni specifiche di quelle della classe lavoratrice. Inoltre le argomentazioni delle fautrici del controllo delle nascite si sono basate, a volte, su premesse razziste. Il potenziale progressista di questa rivendicazione rimane indiscutibile. Ma allo stato dei fatti l’archivio storico di questo movimento lascia molto a desiderare sul terreno della lotta al razzismo e allo sfruttamento di classe.
La più importante vittoria del movimento contemporaneo per il controllo delle nascite è avvenuta nei primi anni Settanta con la legalizzazione dell’aborto. Emersa agli inizi delle nuove mobilitazioni per la liberazione delle donne, la lotta per il diritto all’aborto canalizzò tutto l’entusiasmo e le energie militanti del giovane movimento. Nel gennaio 1973 la campagna aveva raggiunto il suo apice. Nei casi giudiziari “Roe vs Wade” e “Doe vs Bolton” la Corte suprema degli Stati Uniti stabilì che il diritto di una donna a decidere della propria vita privata non potesse prescindere dal diritto di decidere se abortire o meno.
Tra le attiviste della campagna per il diritto all’aborto non vi furono mai numeri consistenti di donne di colore. Vista la composizione razziale del movimento per la liberazione delle donne nel suo complesso, questo dato non era sorprendente. Quando si pose il problema dell’assenza delle donne oppresse dal razzismo nella lotta per il diritto all’aborto, nel dibattito e nella letteratura del periodo venivano generalmente date due spiegazioni: le donne Nere erano sovraccaricate dalla lotta contro il razzismo oppure non avevano ancora preso coscienza della centralità del sessismo. Ma il reale motivo del “colorito pallido” di questa lotta non risiedeva nella scarsa coscienza o nella miopia politica delle donne di colore. La verità è nascosta nelle fondamenta ideologiche del movimento per il controllo delle nascite.
L’incapacità della campagna per il diritto all’aborto di produrre un’analisi storica del proprio percorso, condusse a una valutazione pericolosamente superficiale della diffidenza delle persone Nere verso questo tema. Sicuramente quando alcuni Neri equipararono senza esitazione il controllo delle nascite a un genocidio, fu una reazione esagerata, se non paranoica. Ma le attiviste bianche per l’aborto ignorarono un argomento centrale: queste accuse di genocidio erano importanti sintomi delle modalità di sviluppo del movimento, che per esempio aveva difeso la sterilizzazione forzata, una forma razzista di «controllo di massa delle nascite». Le donne non potranno mai godere del diritto di pianificare le proprie gravidanze fino a quando le misure legali e accessibili di controllo delle nascite non si accompagneranno alla fine della sterilizzazione forzata.
Le donne di colore non avrebbero mai potuto ignorare l’importanza della campagna per il diritto all’aborto. Rispetto alle loro sorelle bianche avevano molta più familiarità con i bisturi, che spesso nelle mani di incapaci alla ricerca di profitti clandestini ne provocavano maldestramente la morte. A New York per esempio, prima della depenalizzazione, per molti anni circa l’ottanta per cento delle morti causate da aborti illegali riguardò donne Nere e portoricane.2 Subito dopo l’introduzione della nuova legge, circa la metà degli aborti legali fu praticata a Nere. Se nella campagna per il diritto all’aborto dei primi anni Settanta sarebbe stato necessario ricordarsi che le donne di colore volevano disperatamente sfuggire ai retrobottega degli abortisti ciarlatani, sarebbe stato fondamentale anche accorgersi che queste stesse donne non erano pronte a esprimersi a favore dell’aborto. Erano a favore del diritto all’aborto ma non per questo sostenitrici dell’aborto. Se il numero di Nere e latine che vi fanno ricorso è molto alto, il motivo non riguarda più di tanto il desiderio di interrompere la gravidanza quanto le condizioni sociali miserabili che le dissuadono dal portare nuove vite sulla terra.
Le donne Nere hanno sempre abortito da sole sin dai primi tempi della schiavitù. Molte schiave rifiutavano di mettere al mondo figli destinati a un’esistenza di interminabile lavoro forzato, dove le catene, la fustigazione e lo stupro erano condizione quotidiana. Un medico in Georgia, intorno alla metà del secolo scorso, notò che le interruzioni di gravidanza e gli aborti spontanei erano molto più comuni tra le sue pazienti schiave che tra le bianche. Secondo questo medico, le donne Nere lavoravano troppo duramente oppure
[…] come credono i proprietari delle piantagioni, le Nere possiedono una capacità segreta di distruggere il feto nelle prime fasi della gestazione. […] Tutti gli esperti conoscono la lamentela diffusa dei proprietari terrieri [riguardante] la tendenza innaturale delle donne africane a distruggere la loro progenie.3
Scioccato dal fatto che «tantissime donne non riescono ad avere bambini»,4 questo dottore non si fermò a considerare quanto fosse invece «innaturale» crescere dei bambini sotto un sistema schiavistico. L’episodio di Margaret Garner precedentemente menzionato, la schiava fuggitiva che uccise la propria figlia e tentò il suicidio una volta catturata dai cacciatori di schiavi, è emblematico:
Si rallegrò che sua figlia fosse morta – «ora non saprà mai cosa soffre una donna da schiava» – e domandò di essere processata per omicidio: «Andrò al patibolo cantando, piuttosto che tornare alla schiavitù!»5
Perché gli aborti autoimposti e gli atti di infanticidio furono così frequenti durante la schiavitù? Non perché le donne Nere avessero scoperto la soluzione ai loro problemi ma perché erano disperate. Aborti e infanticidi erano gesti di disperazione motivati non da questioni biologiche ma dalla condizione oppressiva della schiavitù. La maggior parte di queste donne avrebbero senza dubbio espresso il loro più profondo risentimento se qualcuno avesse salvato i loro aborti come una pietra miliare sulla strada della libertà.
Nelle fasi iniziali della campagna per il diritto all’aborto troppo spesso si affermò che la sua legalizzazione avrebbe fornito una valida alternativa alla miriade di problemi posti dalla povertà. Come se avere meno bambini potesse creare più lavoro, salari più alti, scuole migliori, ecc. Questa affermazione rifletteva la tendenza a offuscare la distinzione tra il diritto all’aborto e una posizione a favore degli aborti. La campagna spesso non riuscì a dare voce alle donne che volevano che questo diritto fosse legale ma si lamentavano delle condizioni sociali che proibivano loro di mettere al mondo dei bambini.
L’offensiva contro l’aborto tornata in auge alla fine degli anni Settanta ha reso assolutamente necessario focalizzare l’attenzione sulle necessità specifiche delle donne povere e oppresse dal razzismo. A partire dal 1977 l’approvazione dell’emendamento Hyde al Congresso impose la sospensione dei finanziamenti federali alle interruzioni di gravidanza, inducendo molte legislature statali a seguire l’esempio. Le donne Nere, portoricane, chicane e native americane, insieme alle loro sorelle bianche impoverite, furono così effettivamente espropriate del diritto all’aborto legale. Poiché la sterilizzazione chirurgica finanziata dal Department of Health, Education and Welfare rimase gratuita su richiesta, sempre più donne povere furono costrette a optare per l’infertilità permanente. Ciò che è urgente richiedere, dunque, è una campagna più ampia per la difesa dei diritti riproduttivi di tutte le donne e soprattutto di quelle che, per circostanze economiche, hanno dovuto rinunciare al diritto alla riproduzione.
Il desiderio di controllare il proprio sistema riproduttivo è probabilmente vecchio quanto la storia umana. Nel 1844 lo United States Practical Recipe Book conteneva – tra tante ricette alimentari, prodotti chimici fatti in casa e medicine – delle “ricette” di “lozioni per prevenire le nascite”. Per esempio per fare la “lozione preventiva di Hannay” si dovevano
[…] prendere una parte di potassio e sei di acqua. Mescolare e filtrare. Conservare in bottiglie chiuse e usare con o senza sapone, immediatamente dopo il rapporto.6
Per la “Lozione preventiva di Abernethy”, invece,
[…] prendere venticinque parti di dicloruro di mercurio, quattrocento di latte di mandorla, cento di alcol, mille di acqua di rose. Bagnare i genitali con la miscela ottenuta […]. Infallibile, se utilizzato in tempo.7
Note
1“Non ci sono abbastanza risorse per tutti, quindi i meritevoli devono riprodursi: cosa c’è dietro le idee malthusiane – Seconda Parte”, Gruppo Anarchico Galatea, 28 Aprile 2023. Link
2Edwin M. Gold et al., “Therapeutic Abortions in New York City. A Twenty-Year Review”, in American Journal of Public Health, vol. LV, luglio 1965, p. 964-972. Citato in Lucinda Cisla, “Unfinished Buisiness. Birth Control and Women Lberation”, in Robin Morgan (a cura di), Sisterhood is Powerful. An Anthology of Writings From the Women’s Liberation Movement, Vintage Books, New York 1970, p. 261. Citato anche in Robert Staples, The Black Woman in America, Nelson Hall, Chicago 1974, p. 146.
3Gutman, op. cit., pp. 80-81 (nota).
4Ivi
5Aptheker, “The Negro Woman”, cit., p. 12.
6Citato in Baxandall et al., op. cit., p. 17.
7Ivi