Pezzi di merda

 

Scritto da Iene Anarchiche e Insectionals

 

Le donne temono che perdendo questo senso di inferiorità possono perdere anche ciò che le valorizza gli occhi degli uomini: la femminilità. Se una donna si libera dal complesso di inferiorità nei confronti degli uomini uomini, se ha un brillante successo negli affari, nella vita sociale e professionale, spesso soffre di un complesso di inferiorità nei confronti delle altre donne. Si sente meno affascinante, meno amabile, meno piacevole proprio perché priva di femminilità. Sa che il suo successo non rappresenta un vantaggio agli occhi degli uomini, ma rischia anzi di allontanarli. L’uomo invece deve lottare a un solo livello. […] È questa la contraddizione che affligge molte donne oggi: rinunciano in parte a realizzare la propria personalità, o rinunciano in parte al Potere di seduzione sugli uomini. […] Di fronte alle donne, agli uomini piace assumere il ruolo di valorosi cavalieri pronti a combattere per difenderle. Ma per meritare questa generosità la donna deve essere fragile o prigioniera. […] Se la donna avesse conquistato una totale indipendenza, se la sua unione con l’altro sesso si basasse su una perfetta uguaglianza, allora l’uomo si sentirebbe privato di una parte di dolcezza. L’uomo ne è consapevole, ed è la sua riluttanza – ammessa o negata – a innalzare il più grande ostacolo che la donna deve superare nel mondo e nel proprio cuore”
(Estratto da Simone de Beauvoir, “La femminilità, una trappola1)

 

Una premessa che non è una premessa

Secondo il vocabolario della Treccani, il sostantivo “merda”, usato in senso figurato, è rivolto verso una “persona o cosa spregevole, di nessun conto o valore; espressione ingiuriosa riferita a persona”. Nella società odierna potremo considerare tutto e chiunque una merda: dal capo e dirigenti che giocano al ribasso con salari e stipendi fino ad una presunta visione negativa del mondo, passando alle invettive contro la mafia, la polizia, i partiti e la propria famiglia. Tutto, quindi, può essere “merda”. E in un mondo dove, secondo i cultori della parola “merda” usata in senso figurato, l’insoddisfazione o il “mal comune” regna, vi è comunque un “mezzo gaudio” – e quindi una malcelata soddisfazione nell’imprecare ed etichettare persone, cose e fenomeni come “merda.”

Ma non sarà questo il caso che tratteremo.

Non vi è e non vi sarà nessuna soddisfazione o liberazione nell’usare “merda”, insieme all’altro sostantivo, “pezzi”, e preposizione semplice, “di”.

Il caso che tratteremo è un qualcosa che monta una rabbia indicibile, non liberatoria e sinonimi annessi: lo stupro di Catania.

I “pezzi di merda” di questa storia, però, non sono soltanto le persone responsabili dell’atto violento e/o il nugolo di soggetti e soggette che si sfogano sui social e giornali mainstream.

Troppo facile fare il gioco dello “Sbatti il mostro in prima pagina” di bellocchiana memoria.

Diciamo come stanno le cose: è una modalità, giusto per alzare il livello, “assolutoria” atta a de-responsabilizzarsi da ciò che avviene – specie se non si è coinvoltu in determinati fatti e/o fenomeni (le violenze di genere, nel caso specifico, con quello più evidente che è lo stupro).

No, i “pezzi di merda” sono tutti e tutte quelli e quelle che, come collaboratori, collaboratrici, tifosi e tifose, sostengono l’impianto dominante sistemico dove vige la delega e la de-responsabilizzazione, con un “mezzo gaudio” basato sulla distruzione violenta (fisica, mentale e culturale) delle vite altrui.

 

Lo stupro di Catania e la comunicazione mediatica

Il 30 Gennaio, presso la Villa Vincenzo Bellini di Catania, una coppia di giovani fidanzati, appena usciti dai bagni pubblici della struttura, vengono circondati da sette ragazzi e trascinati nuovamente dentro da essi. Stando al racconto della ragazza sopravvissuta, quest’ultima è stata fatta oggetto di violenza sessuale da parte di due di questi ragazzi mentre il fidanzato veniva trattenuto dal resto del gruppo. La fuga e la richiesta di aiuto da parte della sopravvissuta e del suo compagno fuori dalla Villa hanno portato all’intervento di una pattuglia dei carabinieri che hanno arrestato, progressivamente, i vari autori della violenza sessuale. È bene specificare e sottolineare che abbiamo non solo sintetizzato la notizia, ma applicato anche un pesante filtro riguardo tutte le notizie che, ancor oggi, riempiono i siti di CataniaToday, Meridionews, La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Messaggero etc su questo atto vomitevole. Tutte queste testate, senza contare i singoli commentatori sui social media commerciali, si sono sbizzarriti nel narrare la vicenda con tanto di dettagli – che oseremo definire “voyeuristici” – su come la sopravvissuta abbia subito tutte le fasi della violenza e messo alla pubblica gogna, in pieno stile “forcaiolo”, gli aggressori.

Le parole, così espresse, sono di una violenza inaudita atta a definire fin da subito i colpevoli e la vittima, ritraendo i primi come delle bestie ingrate al sistema che li stava educando – e facendo sì che alcuni gruppi di persone migranti rilasciassero delle interviste per scusarsi di ciò che avevano fatto questi violentatori2 -, mentre la seconda come “una bambina indifesa la cui vita è stata distrutta” – ricalcando sia il pietismo melenso e ipocrita di matrice cristiana e sia infantilizzando la sopravvissuta sull’azione violenta subita.

Secondo lo svizzero De Saussure, fondatore della linguistica moderna, le parole sono “un atto individuale di volontà e di intelligenza, nel quale conviene distinguere: 1. le combinazioni con cui il soggetto parlante utilizza il codice della lingua 3 in vista dell’espressione del proprio pensiero personale; 2. il meccanismo psico-fisico che gli permette di esternare tali combinazioni.4

Quando queste parole, nel loro insieme, esprimono delle emozioni derivanti dalla realtà che viene percepita dai sistemi sensoriali (vista, udito, olfatto, tatto e gusto), inizia una comunicazione dove vengono trasmesse delle informazioni. Avremo, in questo ambito, due figure fondamentali: i mittenti – che comunicheranno dei concetti attraverso una sequenza di parole – e i riceventi – che raccoglieranno e decodificheranno i concetti ricevuti.

Nell’ambito mediatico, le redazioni (come figure emittenti) puntano, nello specifico, su tre punti riguardo i contenuti da veicolare: la scelta delle informazioni, mettere in risalto le notizie e il contesto dei fatti avvenuti. Attraverso questi tre punti, i mezzi di comunicazione determinano la direzione dei pensieri e delle conversazioni degli individui, concentrandosi su specifici argomenti o eventi e dando una percezione e comprensione binaria (buono o cattivo, giusto o sbagliato etc) di quest’ultimi. Questo modo di agire si fonda su quello che Lasswell prima e Dunaway e Graber dopo hanno definito come funzione dei mezzi mediatici: sorveglianza, interpretazione, socializzazione e manipolazione.5

Nell’era dei nuovi media, l’utente diventa una parte attiva di queste azioni e modalità dei mass-media.

Il sociologo inglese Nick Couldry scrive che

grazie a internet e alla cosiddetta architettura end-to-end, in linea di principio ciascuno di noi può trasmettere un messaggio a tutte le destinazioni che vuole; possiamo persino contare che anche altri lo inoltrino. Ciò significa che i modi in cui utilizziamo internet – le scelte che facciamo in ordine a quali immagini inviare o quali immagini aprire – non sono estranei all’ecologia dei media, ma ne costituiscono parte integrante.”6

Il ruolo dei media (nuovi e tradizionali che siano) permette di definire e influenzare, attraverso la rappresentazione da loro proposta, l’immaginario sociale e gioca un ruolo fondamentale in questo cambiamento del senso comune e della socializzazione – fornendo, quindi, dei nuovi spazi di conflitto e di cooperazione dove i membri della società vi si possono riconoscere.

Nel contesto dello stupro, l’azione mediatica del binarismo “buono/cattivo” è segnato da precisi rapporti di potere e dominio dove si intersecano gli schemi razziali e di genere.

Data la loro pervasività, media e industria culturale”, scrive Elisa Giomi, “hanno un ruolo centrale tra le pratiche discorsive attraverso cui genere e violenza si co-costituiscono: ogni rappresentazione mediale di episodi di violenza e dei loro protagonisti – che si tratti di un servizio del Tg, di una pubblicità, di un testo musicale o di un videogame – è sempre in qualche modo anche una rappresentazione di genere: è plasmata, cioè, dalle nozioni di femminilità e maschilità che vigono in una determinata epoca, e al contempo contribuisce a rafforzarle, perché mette in scena, legittimandoli o stigmatizzandoli, precisi modi di essere maschio o femmina in quello specifico contesto sociale, culturale e politico. Viceversa ogni rappresentazione di genere, e di rapporto fra i generi, contiene esplicite o più spesso implicite «istruzioni per l’uso» della violenza.7

Quel che salta all’occhio dell’intera vicenda catanese non è soltanto la violenza fisica-sessuale – tema caro a livello culturale-politico di determinati soggetti e soggette definiti insieme ad altri, nella premessa, come “pezzi di merda” – ma è questo voler infantilizzare la sopravvissuta a tale atto chiamandola, per l’appunto, “bambina”. Questa operazione mediatica-culturale è un’ulteriore forma di violenza nei suoi confronti: attraverso l’uso di un tale soprannome condiscendente si perpetuano, da parte del cosiddetto “uomo-maschio”, sia le dinamiche di potere esistenti nelle famiglie odierne che la condizione di subalternità della cosiddetta “donna-femmina” – ricalcando de facto quella femminilità sociale stereotipata che la vorrebbe docile, debole e vulnerabile, la cui àncora di salvezza, secondo gli schemi di genere odierni, è l’ “uomo-maschio”.

La bambina impara presto ad ammirare gli uomini”, scrive De Beauvoir, “gli eroi tradizionali. Molto spesso prova solo pietà e disprezzo per la misera vita domestica di sua madre, fatta di malesseri, lacrime, futilità, preoccupazioni. Magnifica invece la personalità del padre: è lui a rappresentare la forza, il potere, una finestra sul mondo, sulla vita e sul futuro. La bambina desidera identificarsi con lui, e in questo modo riconosce e ammette la superiorità dell’uomo sulla donna che è destinata a diventare.8

Come dimostrato dai troppi articoli di cronaca e dalle ricostruzioni violente dei media, queste narrazioni tossiche della comunicazione mediatica aumenteranno sempre più. Occorre riconoscere questi modelli culturali lavorare attivamente per smontare la retorica di questi pezzi di merda.

 

La spasmodica ricerca della sicurezza nel nome del Decoro e del Capitale

Un altro aspetto da non sottovalutare della narrazione mediatica di questi giorni sulla vicenda dello stupro sono le esternazioni di tutta una serie di attori politici e singoli cittadini – quest’ultimi, in particolare, aderenti o presidenti di sedicenti “Comitati” civici in difesa di porzioni del centro catanese dal cosiddetto degrado imperante.

Queste velleità securitarie sono aumentate negli ultimi mesi, precisamente tra la pulizia etnica effettuata a San Berillo il 19 Ottobre 2023 9 e il ripristino del progetto “Strade sicure” del 9 Novembre 2023, fortemente voluto dal consigliere comunale, nonché capogruppo di Forza Italia, Piermaria Capuana e accolto ad unanimità (maggioranza e opposizione) dalla Giunta comunale catanese.10

Dietro queste “pulsioni”, però, non vi sono dei meri discorsi culturali-autoritari tipici di una destra etichettata borghese da frange della sinistra (istituzionale ed extra-istituzionale). Se seguiamo un certo ordine del discorso dove gli schemi di potere si intrecciano fra di loro (economico, sociale e culturale), riusciamo in modo ottimale ad uscire da questi “trappoloni intellettuali” tipici di gruppi politici desiderosi di rientrare nella fantomatica stanza dei bottoni – soddisfacendo, in tal modo, quella parte di borghesia scontenta dalla governance attuale (locale, regionale e nazionale) e desiderosa, quindi, di controllare, ripristinare e difendere con le unghie e i denti i privilegi acquisiti all’interno della società e del mercato stesso.

La questione della violenza sessuale avvenuta in un parco del centro catanese e tutte le filippiche ed ipocrisie di questi attori sociali e politici menzionati poco prima, ci fa capire che il loro vero ed intimo interesse (inteso come dal profondo del loro animo o della loro sensibilità privilegiata) non è lo stupro e/o l’integrità fisica-mentale della sopravvissuta. No, a loro interessa difendere quello spazio sociale aperto ad una popolazione consumatrice (turistica in particolare), economicamente abbiente o ricca, rigorosamente bianca-caucasica e che si rispecchia, secondo la comunicazione culturale e mediatica vigente, in presunti alti valori umanitari di matrice europea.

Una città come Catania, la cui economia si poggia su un’industria elettronica (la cosiddetta “Etna Valley”, voluta e sostenuta fortemente dagli allora Enzo Bianco, sindaco cittadino, e Nello Musumeci, presidente della provincia), logistica portuale e dei servizi turistici, è fondamentale per il mondo politico ed economico difendere, valorizzare e monetizzare il territorio.

Il centro cittadino catanese diventa sempre più simile ad altre città italiane e dell’area mediterranea: i settori produttivi di stampo turistico ristorativa e accoglienza breve prosperano e dilagano, diventando, di conseguenza, sempre più aggressivi in termini di espansione – specie dopo la frenata causata dal biennio pandemico 2020-2021.

Questa concezione di vetrina, o per meglio dire “città-vetrina”, è un ulteriore potenziamento di ciò che era avvenuto nella cosiddetta “Primavera di Catania” del duo Bianco-Musumeci (seconda metà anni ‘90 – primi anni del 2000). A differenza dell’epoca, però, abbiamo un utilizzo di termini come decoro e sicurezza dove si evidenziano l’uso privatistico degli spazi pubblici e le ordinanze comunali riguardante la somministrazione di bevande alcoliche e la repressione contro i danneggiamenti di beni pubblici, la mendicità, il lavoro sessuale e l’immigrazione “illegale”.

La costituzione di tante “zone di sicurezza” (o per meglio dire “zone private”) all’interno del centro cittadino, traccia una serie di confini dove si separano i comportamenti considerati accettabili da quelli inaccettabili tipici di una porzione di popolazione che vive alla giornata e/o con lavori considerati moralmente iniqui.11

L’allontanamento o ghettizzazione di questa fascia di popolazione viene avvallata in modo massivo dai social network commerciali, in particolare Facebook / Meta: l’utente medio si trasforma in guardiano-difensore e denunciante delle mancanze securitarie dell’istituzione politica-comunale, ricercando ossessivamente il problema formato immigrato, zaurdo / tamarro – o comunque qualunque essere umano non conforme alle logiche securitarie e repressive odierne -, all’interno di un determinato spazio del territorio cittadino. E le parole, usate in questo contesto, sono di carattere moralisteggiante, dileggiante o fintamente umoristico contro tali persone, creando una comunità di persone pronte a denunciare pubblicamente e col supporto logistico, seppur in modo indiretto, di app come “YouPol”.

La costruzione e il mantenimento della città-vetrina ha come obiettivo la perfezione assoluta dove le persone consumatrici non subiscono alcuna forma di molestia o invadenza di sorta e possono, quindi, “nutrirsi” di prodotti, servizi, offerte e costruzioni culturali vuote e profittevoli per i venditori. Fuori da questo spazio e delle zone di sicurezza annesse, vi è il degrado e il caos – buono per essere condannato dai mass media e dal resto della popolazione abbiente -, la cui composizione sociale verrà utilizzata come possibile esercito industriale di riserva da organizzazioni borghesi legali e non legali (clan mafiosi).

 

Note sul consenso

Ogni volta che uno stupro diventa un fatto di cronaca, si apre un polverone mediatico non solo sulla presunta veridicità dell’atto (tendenzialmente mettendo in dubbio la testimonianza della vittima), ma anche su che cosa sia o meno il consenso.

Si pensa generalmente che la donna abbia sempre una parte di colpa in una violenza sessuale, e tra uomini c’è una tale solidarietà che crea un muro da sempre eretto a fortezza del loro status sociale.

Si dà per scontato che essendo uomo sia sempre nel giusto”, scrive de Beauvoir, “e che sia la donna ad avere torto. E lui ha rappresentare il tipo umano ideale. […] Le donne si muovono con difficoltà e goffaggine in un mondo di uomini perché in quel mondo sono ammesse solo come ospiti. […] Lo slancio verso il futuro che distingue l’essere umano era una prerogativa solo maschile. La donna era massaia e madre, e come tale non poteva essere latrice di alcun principio di progresso. Custode del focolare, era rivolta verso la tradizione, verso il passato morto. Solo l’uomo immaginava il futuro. Il ruolo della donna in casa non è quello di costruire il positivo ma di lottare contro la distruzione. […] Se in questa condizione di radicali dipendenza la donna abbia potuto o meno trovare la felicità è una questione superflua.12

Ancora una volta, anche in situazioni così gravi, questi si nascondono dietro a giustificazioni e colpevolizzazioni verso la donna.

Abbiamo bisogno di una narrazione femminista sul consenso per svariate ragioni; dobbiamo abbandonare l’idea, ad esempio, che il sesso debba essere finalizzato unicamente al piacere individuale e accettare, invece, che sia un qualcosa di condiviso.

Con un passettino in più, possiamo dire che la norma occidentale cristiana-cattolica, basata sulla monogamia, spinga a vedere scandalosa una situazione sessuale che implichi più di due soggetti coinvolti nell’atto, decretando accettabile, normale e normato il sesso tra due persone.

La monogamia sociale ingloba un’altra regola, e cioè il fatto che entrambi i soggetti siano cisgender ed eterosessuali.

Lo stupro di gruppo tende a scandalizzare anche in quanto il sesso tra più persone è considerato tabù. Motivo per cui è più difficile che venga messa in discussione, a livello mediatico, la testimonianza della vittima.

E non importa che la presunta passività femminile nel sesso aderisca alla norma patriarcale anche nell’ambito di uno stupro di gruppo, proprio per il motivo detto sopra.

L’aggressività di un branco di stupratori mette in cattiva luce il potere patriarcale (privilegio) di quegli uomini che non stuprano e che ricevono, anzi, una pacca sulla spalla solo perché non sono degli stupratori.

Gli stupratori non sono le «truppe d’assalto» del patriarcato, ma la sua progenie inadeguata”,scrive Joanna Bourke, “i predatori sessuali non solo minacciano e indeboliscono il potere dell’uomo singolo, ma corrodono anche la categoria degli «uomini» e il loro (immaginario) complesso di credenze falliche. In tempi moderni, l’eterosessualità obbligatoria, le promesse di matrimonio e la suddivisione del lavoro in base al sesso sono stati metodi particolarmente efficaci per controllare le donne. Benché la paura dello stupro abbia permesso agli uomini di indossare il manto dei protettori caritatevoli mentre continuavano a confinare le «proprie» donne nella sfera domestica (e in altre che essi reputano sicure), essa è uno strumento piuttosto evidente di dominazione. Le azioni degli uomini che in strada intimidiscono, molestano e aggrediscono le donne, mettono a repentaglio il bastione della virilità matura. Gli stupratori domestici (i mariti, per fare un esempio) sovvertono e mettono in pericolo l’autorità maschile, in parte perché incoraggiano la resistenza delle donne mettendo in luce la forza brutale che si cela sotto le dimostrazioni d’affetto della società patriarcale.13

La costruzione culturale del “non tutti gli uomini stuprano” (o sintetizzandolo nell’inglese “not all men”), serve a quella parte di popolazione maschile per de-responsabilizzarsi e auto-assolversi da tutta una serie di aggressività culturali, economiche, fisiche, sociali e psicologiche. Il risultato è che se lo stupratore non solo è più di uno nello stesso momento, ma è anche uno sconosciuto (nonostante, dati alla mano, la maggior parte delle violenze avvenga tra partner/ in famiglia) e, in questo caso, anche straniero, l’immaginario narrativo va a ricalcare tutta una serie di stereotipi triti e ritriti, difendendo con la de-responsabilizzazione tutto il resto degli uomini.

Tornando al discorso del consenso, “spesso accade che si dia per scontato il consenso dell’altra persona, senza che ci sia stata dall’altra parte non solo una conferma verbale ma nemmeno un qualche segnale non verbale che indicasse una risposta positiva. Questo porta a situazioni di approcci sessuali espliciti non desiderati, vissuti dall’altra parte come una molestia.14

Il consenso non deve essere mai dato per scontato. L’unico modo per averlo è accertarsene mediante la comunicazione – che deve definirlo in modo chiaro, partecipe, entusiasta e informato. Nel caso in cui dovesse venire meno una sola di queste cose, non può darsi consenso.

È sempre bene tenere a mente che:

I limiti, come anche il consenso, non sono fissi. Il consenso può venir dato a inizio serata e tolto prima della fine della notte. Non esiste un set di regole per li consenso, come non ne esiste un’unica definizione. Definire li consenso è un percorso personale, fatto di riflessioni su situazioni in cui non ti vuoi mai più ritrovare e dove invece vuoi andare con la tua vita sessuale.15

Specifichiamo in questa sede che cosa si intende per consenso perché la vicenda accaduta a Catania non è al limite del consenso, al contrario di altri episodi divenuti in seguito fatti di cronaca, ma un vero e proprio caso in cui esso viene bypassato.

Non crediamo che lo stupro debba necessariamente, come in questo caso, costituire una situazione in cui il consenso viene forzato, ovvero negato con la forza. Non tutti gli stupri sono di fatto un atto di forza; eppure sono sempre episodi di violenza. Chiarire questo aspetto nel 2024 in seno ad una società che si dice “progressista”, è doveroso per rendere giustizia a tutti quei rapporti che vogliono costituirsi al di là del sistema economico, domestico e culturale patriarcale.

In questo frangente è evidente l’atto di prevaricazione e violenza maschile, eppure, stando ad altri fatti di cronaca simili, che hanno visto coinvolti dei “bravi ragazzi” (ragazzi bianchi, cittadini italiani, parte di paesi “civilizzati” e “democratici”, talvolta anche figli di famiglie borghesi), abbiamo creduto che non fosse scontato – e non deve esserlo mai – parlare di consensualità.

 

Note

1Inserito nel libro Simone de Beauvoir, “La femminilità, una trappola. Scritti inediti 1927-1983”, L’Orma, Roma, 2021, pag. 43-44). Come riportato nella presentazione in italiano di questo articolo, “tra il Gennaio e il Maggio 1947 Simone de Beauvoir fu impegnata in un celebre tour di conferenze negli Stati Uniti. In quel periodo scrisse diversi articoli in lingua inglese tra cui il testo seguente, pubblicato sul numero di «Vogue» del 15 Marzo 1947 con il titolo “Femininity, the Trap”. È a quest’altezza che Beauvoir cominciò a interrogarsi in maniera più organica sulla questione femminile, e a elaborare quello che nel 1949 diventerà “Il secondo sesso”, di cui proprio questo brano contiene in nuce numerosi nuclei tematici. In francese è stato pubblicato soltanto nel 2001 in un volume dal titolo Simone de Beauvoir a cura di Gérard Bonal e Malka Ribowska.”

2“Lo stupro di Catania, le voci dei migranti: “Per noi è una sconfitta”. Il presidente della comunità islamica: “Frenare la deriva dei valori””, LaRepubblica, 4 Febbraio 2024. Link: https://palermo.repubblica.it/cronaca/2024/02/04/news/stupro_catania_le_voci_della_comunita_dei_migranti_per_noi_e_una_sconfitta-422054303/

3Per de Saussure, il “codice” o sistemi di segni della lingua – intesa quest’ultima come un oggetto ben definito e “parte sociale del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può né crearla né modificarla; essa esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto tra i membri della comunità […] un sistema di segni in cui essenziale è soltanto l’unione del senso e dell’immagine acustica” (“Corso di linguistica generale”, Laterza, Roma-Bari, 2005, pag. 24) – sono delle entità a due facce (significanti (ovvero entità presente o espressione. Esempio la parola “albero”) e significati (ovvero entità assente o contenuto. Esempio l’immagine di un albero) la cui relazione viene stabilita da un sistema di regole (la langue o lingua). Umberto Eco, nel “Trattato di semiotica generale” (Bompiani, Milano, ,1975) riporta come la semiologia saussuriana si avvicini alla teoria della comunicazione ma “non ha mai chiaramente definito il significato, lasciandolo a metà strada tra una immagine mentale, un concetto e una realtà psicologica non altrimenti circoscritta; in compenso ha sottolineato con forza il fatto che il significato è qualcosa che ha a che fare con l’attività mentale di individui in seno alla società.” I segni, per de Saussure, non sono altro che artifici comunicativi che riguardavano “due esseri umani intenzionalmente intesi a comunicarsi e a esprimersi qualcosa.” (pagg. 36-37)

4Ferdinand de Saussure, op. cit.

5Lasswell, nel saggio “The structure and function of communication in society” (inserito in L. Bryson (Ed.), “The communication of ideas”, Institute for Religious and Social Studies, New York, 1949), definiva in tal modo tre delle quattro funzioni citate: “(1) la sorveglianza dell’ambiente; (2) la correlazione delle parti della società nel rispondere all’ambiente; (3) la trasmissione del patrimonio sociale da una generazione all’altra.” Nell’ambito mediatico queste tre funzioni servono, rispettivamente, (1) nel monitorare gli eventi (locali, nazionali ed internazionali) all’interno della società – facendo conoscere o informando dei fatti il pubblico -, (2) nella decisione di quali notizie produrre – riportando il contesto e un significato e non solo la mera notizia -, e (3) nel presentare, rafforzare e riprodurre le idee e i comportamenti sociali. Dunaway e Graber, nel libro “Mass Media and American Politics” (edito da SAGE Pubblication, Thousand Oaks, 2023, Undicesima Edizione) oltre a riprendere ciò che scrisse Lasswell, aggiungono la manipolazione come quarta funzione: “il lavoro dei giornalisti ha implicazioni politiche. Intenzionalmente o meno, i giornalisti diventano talvolta attori principali nel gioco della politica; non sempre svolgono il loro ruolo tradizionale di cronisti di informazioni fornite da altri. Il modo più comune per un giornalista di uscire dal ruolo di spettatore politico è attraverso un’inchiesta. Molte grandi aziende mediatiche dispongono di unità investigative perché le storie investigative sono importanti e popolari. […] Lo scopo principale può essere quello di smascherare la cattiva condotta del governo e produrre riforme, oppure quello di presentare informazioni sensazionali che attraggano il grande pubblico dei media e aumentino i profitti. Altre storie investigative (o interpretazioni di storie) possono essere progettate per influenzare la politica, allineandola con il marchio politico del mezzo di comunicazione specifico.”

6Nick Couldry, “I media. Perché sono importanti”, Il Mulino, Bologna, 2023, Capitolo 4 “I media come ambiente”

7Elisa Giomi, Sveva Magaraggia, “Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale”, Il Mulino, Bologna, 2017, Introduzione (scritta da Giomi)

8De Beauvoir, op. cit., pag. 42

9“Catania: pulizia etnica e gentrificazione”, Gruppo Anarchico Galatea-Catania, 30-31 Ottobre 2023. Link Prima e Seconda parte

10Verbale n. 10, Seduta ordinaria del 9 Novembre 2023, pag. 3. Link Verbale

11Un esempio è la questione del pezzo rimanente del quartiere di San Berillo. Vedere, oltre alla nota 7, anche: Gruppo Anarchico Galatea, “Catania: il degrado e il decoro della civiltà” (link), “Catania: ristrutturazioni e investimenti borghesi” (link) e presentazione dell’articolo “bell hooks a Catania. Di imprese sociali e riqualificazione” (link); Gruppo Anarchico Chimera, “Sulla riqualificazione di San Berillo e il processo di gentrificazione” in ““Con l’acqua alla gola”Appunti per uno studio sulla ristrutturazione borghese in Sicilia”, pagg. 18-20. (link)

12De Beauvoir, op. cit., pag. 39-40

13 Joanna Bourke, “Stupro. Storia della violenza sessuale”, Laterza, Bari-Roma, 2011, Capitolo 15 “Violenza, politica erotismo.”

14“Sussurri e grida. Riflessioni sul consenso”, Milano, Primavera 2011, pag. 4

15Ibidem, pag. 13