La colonizzazione ebraica e gli arabi sino al “libro bianco” del Maggio 1939
Nel 1920 il governo britannico inviò in Palestina un Alto Commissario, Sir Herbert Samuel, la nota personalità ebraica che aveva aiutato Weizmann quando questi muoveva i primi passi verso la costituzione dell’alleanza tra sionismo e Regno Unito. Anche se Sir Samuel fu talvolta criticato dai sionisti, la sua nomina fu per essi una vera vittoria e il risultato di una brillante azione diplomatica di Weizmann. Sir Samuel non venne mai meno al legame che lo univa sia alla ishùv (comunità ebraica residente in Palestina) sia all’organizzazione sionista mondiale. La sua azione in Palestina, nel complesso, è da considerarsi essenzialmente a favore del sionismo, anche se non trascurò, ovviamente, gli interessi britannici nel paese.
Maxime Rodinson nel suo studio sulla questione palestinese scrive che l’anno 1920 fu chiamato dagli arabi “am an-nakba”, l’anno della catastrofe.1 La frustrazione, la rabbia, la delusione erano i sentimenti sia dei gruppi dirigenti nazionalisti, sia delle masse arabe e questi sentimenti sfociarono in violenza di pazza, in vivaci proteste contro la Gran Bretagna, contro la Francia e l’insediamento sionista in Palestina. E quando nella primavera del 1920 fu chiaro agli Arabi che i sionisti avevano alle spalle le grandi Potenze, essi si sollevarono in tutta la Palestina in un movimento che parve assumere le dimensioni di una vera e propria rivolta 2; né la ribellione riguardò soltanto la Palestina, in effetti manifestazioni antibritanniche e di solidarietà con i Palestinesi si ebbero in Siria, Libano, Egitto e perfino in Marocco. Rodinson commenta acutamente: “Qualche che fosse l’ideologia che ispirava la rivolta, questo progetto di installazione straniera in un paese arabo, orientata verso l’amputazione di questo territorio, era un affronto tanto all’arabismo, tanto all’Islam che all’anticolonialismo.”3
In questa atmosfera molto tesa, Sir Samuel, nell’Agosto 1920 si recò ad Amman per assistere la Trasgiordania nell’instaurazione dell’autogoverno in quella regione che sarebbe stata staccata dalla Palestina.4
Nell’Ottobre dello stesso anno Sir Samuel istituì l’Advisory Council, un organo consultivo dell’Amministrazione mandataria, composta da dieci funzionari britannici, sette arabi (4 musulmani, 3 cristiani), tre ebrei nominati dall’Alto Commissario e da dodici membri effettivi di cui otto arabi musulmani, due arabi cristiani e due ebrei. Questo consiglio si dimostrò però subito un organo del tutto privo di effettivo peso politico autonomo e irrisoriamente rappresentativo. Dei trentadue membri, venti erano di nomina britannica e dodici eletti dalla popolazione palestinese. Gli Arabi capirono subito che si trattava non di un istituto rappresentativo democratico, ma di una copertura per la politica inglese nel loro paese e l’Alto Commissario non riuscì mai a fare sì che i membri arabi venissero eletti. L’astensione dall’elezione fu quasi totale da parte araba e quando alcuni di essi votarono, crearono, intenzionalmente e non, un’atmosfera di confusione e di brogli tale da rendere nullo il mandato rappresentativo. I sionisti, invece, elessero regolarmente la loro rappresentanza all’Advisor Council.5
Il malcontento arabo in Palestina aumentava sempre più: fu allora deciso da parte dei gruppi politici arabi di inviare una delegazione a Londra per protestare presso il Governo britannico contro l’insediamento sionista in Palestina. L’accoglienza degli ambienti ufficiali fu fredda. La risposta ufficiale, altrimenti detta Memorandum Churchill 6, perché da questi ispirata, se non da lui direttamente redatta nella sua qualità di Ministro delle Colonie, fu nella sostanza quasi insolente. In questo documento fu detto agli Arabi che nulla dovevano temere da parte sionista perché si trattava solo di fondare in Palestina un focolare nazionale e di svilupparlo con l’aiuto di tutti gli Ebrei del mondo e che il timore di uno Stato ebraico era infondato. Ma il tono non era quello di chi rassicura, ma di chi non tollera dubbi e osservazioni al proprio operato.
Il Memorandum negò che la Palestina fosse compresa nelle promesse fatte da McMahon allo Sceriffo Husein e negò anche ogni concessione democratica come quella di una assemblea nazionale elettiva che era stata chiesta dagli Arabi. Questi ottennero solo il riconoscimento del Consiglio Supremo Musulmano, depositario del potere giudiziario in materia religiosa e amministrativa dei possedimenti religiosi e i tribunali religiosi islamici. Gli Arabi risposero affermando che il Governo di Sua Maestà conduceva una politica di parte che essi non potevano accettare in quanto prima o poi avrebbe causato la loro estinzione.7
Fin dalla metà del 1922, dunque, gli Arabi palestinesi avevano piena coscienza del pericolo che derivava loro dall’insediamento sionista. Weizmann in una nota di risposta al governo inglese che aveva inviato all’esecutivo sionista il Memorandum Churchill (pubblicato sotto forma di libro bianco), rispose che l’organizzazione sionista avrebbe agito in conformità alla linea politica tracciata nel documento britannico.8
Weizmann stesso aveva detto in un discorso tenuto a Manchester il 7 Dicembre 1919: “Negli ultimi dieci anni della nostra attività colonizzatrice s’è manifesta sempre più la tendenza a sostituire sistematicamente, e talvolta con naturale svantaggio economico (perché i lavoratori arabi erano sottosalariati rispetto a quelli ebrei) al lavoro arabo il lavoro ebraico; ed io sarei indotto a pregare gli Arabi di ricordarsi che se noi l’abbiamo fatto non è stato perché noi siamo contrari a loro, ma perché desideriamo seguire il monito di cui ha parlato ora Sir Mark Sykes e far realmente della Palestina il paese ebraico. Noi vogliamo che le colonie siano ebraiche e che siano coltivate da Ebrei, ed io prego i nostri amici Arabi di comprendere che è un postulato elementare per coloro che vogliono ricostruire un paese ebraico, che esso sia fatto dal lavoro ebraico e non soltanto dalla finanza ebraica.”9
Queste affermazioni di Weizmann sono di grande interesse per comprendere la visione sionistica del problema. Ancora sullo stesso argomento Weizmann, nel discorso tenuto a Londra il 21 Settembre 1919, aveva detto: “Vi è poi il vecchio problema arabo. Gli Arabi non sono stranieri, essi vivono nel paese da secoli. Sono un popolo primitivo e non vogliono lasciare la Palestina come noi vi entriamo. Noi diciamo: “c’è qui posto per voi e per noi: voi trarrete vantaggio dalla nostra venuta e noi trarremo vantaggio dalle relazioni amichevoli che si determineranno fra voi e noi”…gli Arabi vivranno in mezzo a noi.”10
Le intenzioni dichiarate dai sionisti erano di fare della Palestina uno Stato Ebraico. E Weizmann espresse con convinzione e pubblicamente questo piano sionista. Con “gli Arabi vivranno in mezzo a noi”, Weizmann già vedeva la maggioranza ebraica in Palestina. Ma egli diceva queste cose non in conciliaboli segreti, bensì in Inghilterra e in pubbliche conferenze. Il Governo di Sua Maestà e il suo ministro delle Colonie Churchill erano in evidente malafede nel libro bianco con il quale risposero alla delegazione arabo-palestinese. Tanto più che Weizmann, in un discorso tenuto a Londra il 12 Luglio 1920, aveva detto ancora una volta molto esplicitamente: “Noi condurremo, noi dobbiamo condurre gli Arabi palestinesi lungo quelle stesse vie del progresso su cui noi stessi procederemo; ma ad un patto: che noi Ebrei lavoriamo, fatichiamo, lottiamo, preghiamo e soffriamo per una Palestina ebraica.”11
Così appariva chiaro davanti agli occhi degli Arabi il sostanziale accordo tra Governo britannico e sionismo. Il 24 Luglio 1922 la Società delle Nazioni riunita a Londra ratificò il mandato britannico sulla Palestina che comprendeva la dichiarazione Balfour e l’accentuava notevolmente riconoscendo “il legame storico del popolo ebraico con la Palestina” e dando garanzia “per la ricostituzione del loro focolare nazionale in quel paese.”12
L’articolo 4 riconosceva come istituzione l’Agenzia Ebraica, considerata come organo di cooperazione con l’amministrazione mandataria e per quanto riguardava i problemi economici, sociali e l’insediamento del focolare nazionale ebraico. La Jewish Agency sotto il controllo britannico poteva anche prendere parte allo sviluppo del paese. I sionisti così s’inserivano nella direzione politico-economica del paese affiancando la Gran Bretagna nel suo governo mandatario.
Anche l’articolo 6 suggellava un ulteriore passo avanti dei sionisti: “l’amministrazione della Palestina faciliterà l’immigrazione ebraica in condizioni convenienti e di concerto con l’organismo ebraico menzionato all’articolo 4; essa incoraggerà l’insediamento intensivo degli Ebrei sulle terre del Paese, comprese quelle demaniali e le terre incolte non utilizzate per i servizi pubblici.”13
L’articolo 7 dice: “L’Amministrazione della Palestina assumerà la responsabilità di emanare una legge sulle nazionalità. Questa legge comporterà delle clausole destinate a facilitare agli Ebrei che si stabiliranno in Palestina permanentemente l’acquisizione della nazionalità palestinese.”
L’articolo 11, secondo comma: “L’Amministrazione potrà, nella misura in cui non agirà direttamente, accordarsi con l’organismo ebraico menzionato all’articolo 4, per costruire od operare, con condizioni giuste ed eque, tutti i lavori e i servizi d’utilità pubblica e per sviluppare tutte le risorse naturali del paese. In questi accordi sarà inteso che nessuno dei profitti distribuiti da questo organismo dovrà eccedere un tasso ragionevole d’interesse sul capitale e che tutto l’eccedente sarà da esso utilizzato a beneficio del paese in modo approvato dall’Amministrazione.”
L’articolo 22: “L’inglese, l’arabo e l’ebraico saranno le lingue ufficiali in Palestina. Ogni indicazione o iscrizione in arabo sui francobolli o sul denaro sarà ripetuta in ebraico e ogni indicazione o iscrizione in ebraico deve essere replicata in arabo.”14
Il mandato, quindi, veniva ad associare l’organizzazione sionista alla Gran Bretagna nel governo effettivo della Palestina. Gli Arabi protestarono, ma non avevano ancora la forza per una reazione decisa, né a dire il vero, avrebbero potuto fare molto contro la Gran Bretagna nelle condizioni in cui si trovavano. Il movimento nazionale arabo, politicamente sconfitto al Congresso della Pace, viveva un periodo di riflusso dopo l’esplosione di adirata delusione e amarezza degli anni 1920 e 1921.
Il 1o Settembre 1922 veniva mandato il “The Palestine Order in Council”, che dava una costituzione alla Palestina, in base alla quale si conferivano praticamente i pieni poteri all’Alto Commissario e all’amministrazione britannica. Inoltre, per non urtare ulteriormente gli Arabi, la Carta Costituzionale evitava di trattare della questione dell’immigrazione ebraica nei suoi 90 articoli. Nel preambolo veniva accolta la Dichiarazione Balfour secondo l’accordo stipulato con le grandi Potenze all’epoca della suddetta dichiarazione. Ma gli Arabi palestinesi non potevano assolutamente essere soddisfatti della costituzione che li sottoponeva ad un governo di tipo coloniale in cui neppure si intravedevano quegli istituti democratici che la potenza mandataria avrebbe dovuto introdurre nel paese per avviarlo ad una democrazia parlamentare di tipo europeo. Soltanto idealmente la Palestina era uno Stato indipendente, realmente era una colonia britannica.15
Il mandato britannico in Palestina non trovò opposizione soltanto da parte araba. In sede internazionale, nel Dicembre 1924 alla Società delle Nazioni, la Commissione dei Mandati criticò l’operato del Regno Unito facendo notare quanto fossero grandi l’insoddisfazione e la tensione fra gli Arabi palestinesi. Ma nella discussione in assemblea generale, questa critica rientrò dopo l’intervento del delegato britannico, che invocò la difficoltà oggettiva della situazione palestinese e fu molto duro con la Commissione dei mandati: l’Assemblea votò dunque il rapporto inglese.16
Nell’Ottobre del 1925 la Commissione dei Mandati, dopo aver esaminato il rapporto inglese, giudicò che la situazione in Palestina era molto migliorata.17 Così gli Arabi palestinesi non poterono più sperare in una voce che prendesse le loro difese nella massima assise internazionale. Il Consiglio della Società delle Nazioni nel Settembre del 1926, alla fine della discussione sui mandati, concludeva che l’ordine regnava in Palestina.18
Ed era vero. Il 1o Aprile 1925 Lord Balfour andò a Gerusalemme per presenziare all’inaugurazione dell’università ebraica. Il solo nome di Balfour era per gli Arabi una vera bestemmia, eppure essi come protesta seppero solo organizzare uno sciopero generale. La ragione del riflusso della lotta araba contro il mandato inglese in Palestina e contro l’insediamento sionista trova la sua giustificazione nella situazione generale degli Arabi in quegli anni. Infatti il 25 marzo 1923 la Transgiordania, staccata dalla Palestina, formava un ermirato indipendente sotto Abdallah, fratello maggiore di Faisal. Il 23 Agosto del 1921 Faisal era stato proclamato re dell’Iraq. Nel corso del 1922 l’Egitto era stato proclamato Regno Indipendente sotto Fuad, discendente di Mohammed Alì. Il Neger e lo Higiaz erano stati conquistati da Ibn Saud e lo Yemen era sotto l’emiro Yahya. La relativa sistemazione di una parte dell’Oriente arabo in una sfera d’indipendenza politica direttamente o indirettamente controllata dalla Gran Bretagna e dalla Francia aveva indebolito il fronte arabo.
Solo la Siria non si rassegnava al mandato francese, che peraltro era un vero e proprio regime di dittatura militare, e la rivolta armata degli Arabi durò lungo tutto l’arco del 1925. In Palestina, invece, non si era riusciti ad elaborare un’efficace linea di lotta anticolonialista e la disperazione delle masse arabe restava per il momento senza un qualsiasi sbocco. La situazione politica era così calma che Sir Herbert Samuel potè dichiarare il 22 Aprile del 1925 che le truppe di stanza in Palestina erano ridotte ad un solo reggimento di cavalleria stanziato colà per volontà del War Office (cioè per motivi strategici e non contingenti alla situazione interna palestinese), ad un gruppo di aerei, ad una compagnia di carri armati e a 450 gendarmi inglesi.19
Ma il fuoco covava sotto la cenere; l’immigrazione aumentava con ritmo crescente; il 1925 segnò la cifra record di 33.801 immigrati ebrei.20
E l’immigrazione ebraica esasperava sempre più larghi strati della popolazione araba, rischiando anche di mettere in crisi l’economia della Palestina. È necessario ora, per chiarire ulteriormente il problema che stiamo affrontando, fare un quadro dell’immigrazione ebraica in Palestina.
La popolazione ebraica della Palestina nei secoli posteriori alla distruzione di Gerusalemme (da E. Vandervelde, Le pays d’Israel, annexe II, Paris, 1929, p. 250 21) |
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1170 (secondo Benjamin de Tuleda22) |
5000 |
All’inizio del XIX secolo |
8000 |
1845 (secondo Schwarz, Das Heilige Land 23) |
11000 |
1855 (secondo L. Frankl, Nach Jerusalem 24) |
10114 |
1880 |
20000 |
1895 |
50000 |
1900 |
55000 |
1914 |
90000 |
1919 |
60000 |
Popolazione palestinese (da Riccardo Bachi, La Palestina ebraica, p. 7 25) |
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Anno |
Ebrei |
Non Ebrei fissi |
Non Ebrei nomadi |
1919 |
57900 |
546100 |
643100 |
1920 |
67700 |
552300 |
651300 |
1921 |
77600 |
559800 |
660800 |
L’immigrazione ebraica in Palestina iniziò quando l’emigrazione degli Ebrei dell’Europa Orientale spinse masse sempre più numerose di Ebrei verso l’Europa Occidentale, gli Stati Uniti d’America e l’Argentina. In questo periodo, che si può collocare intorno alla seconda metà del secolo scorso, alcuni piccoli gruppi di Ebrei, quasi tutti russi, si stabilirono in Palestina. Ma è una immigrazione saltuaria e del tutto sporadica di un’élite di pionieri: le prime immigrazioni organizzate avvennero sotto gli auspici dei grossi capitalisti ebrei come Lord Rothschild 26 e il barone Hirsch.
L’azione filantropica dei ricchi ebrei fu dettata in primo luogo dalla necessità di creare uno sbocco all’emigrazione ebraica dell’Europa Orientale, per allontanare il pericolo dell’antisemitismo che risorgeva nei paesi occidentali e che avrebbe indubbiamente coinvolto anche loro, i ricchi ebrei “assimilati”, e secondariamente anche per mantenere, da parte di questi ebrei completamente integrati nella grande borghesia finanziaria e industriale europea un certo tipo di legame con la comunità ebraica mondiale. Così tra il 1880 e il 1890 l’associazione ebraica russa degli Hoveve Sion (Amanti di Sion), con l’aiuto del barone Edmund Rothschild, fondò le colonie agricole di Zikron Yakov, Rosh Pina, Rehovot Katra e Kastinieh.27
Il periodo 1901-1907 fu quello della fondazione di colonie nella bassa Galilea sotto la direzione della Jewish Colonization Association (del barone Hirsch).28
Questi due primi periodi furono caratterizzati dalle monocolture, (cioè ogni colonia coltiva un solo prodotto, ad esempio agrumi).
Continua…
Note
1 Cfr. M. Rodinson, op. cit., p. 25.
2 P. Lipowesky, La nuova difesa, come fu salvata la Galilea Settentrionale, in “Rassegna Mensile di Israel”, n. 3 (1925). In questo articolo l’autore narra la morte di Joseph Trumpledor, famoso pioniere sionista di Palestina, a Tel Hai. È significativo quanto egli scrive a pag. 144: “un altro giorno si avvicinarono alla Kevuzah, Kamel Effendi con otto ufficiali armati di fucili e di bombe a mano e intimarono di alzare la bandiera dello Sceriffo: fu loro risposto con un rifiuto. Invitarono ad aiutarli nella loro guerra contro i Francesi; i compagni risposero che si tenevano neutrali in queste ostilità e che non potevano aderire al loro invito. Gli Arabi se ne andarono con rabbia e con sdegno manifesto.” Gli uomini di Kamel Effendi combattevano agli ordini di Faisal contro i Francesi ed è comprensibile che considerassero nemici uomini armati, stranieri nel loro paese, che si rifiutavano di combattere con loro contro i loro nemici. La contraddizione generale tra sionisti e arabi è ancora una volta evidente. Nota del blog. L’evento che riporta Goglia si inserisce all’interno del quadro guerresco franco-siriano (Marzo-Luglio 1920) e degli scontri tra Arabi ed Ebrei nella Palestina post-accordo Faisal-Weizmann. Riguardo l’articolo di Lipowesky è d’uopo fare delle specifiche. La prima riguarda il tono generale usato dall’autore: una vera e propria epigrafe su Trumpledor ed esaltazione in generale degli insediamenti ebraici nella Palestina post-primo conflitto mondiale. La seconda, invece, è una ricostruzione enfatica prima dell’attacco: “Diverse tribù arabe, sia di abitanti fissi, sia di beduini nomadi, erano state provviste di armi in abbondanza, tutta la regione era piena di munizioni e di passioni guerresche che dovevano presto o tardi divampare e tramutare la meravigliosa vallata, ai piedi del Hermon, in un campo di guerra e di strage. A seguito del compromesso anglo-francese (accordo Sykes-Picot) la parte settentrionale della Galilea superiore era rimasta in mano dei francesi. Gl’inglesi si erano ritirati dalla zona di frontiera, i francesi non vi erano ancora entrati e cosi il paese era rimasto in balia delle tribù arabo-beduine, in lotta fra di loro. Erano scoppiate serie ostilità fra arabi musulmani e cristiani, fra arabi e francesi. Tutto il paese si era trasformato in un campo di battaglia accanita e partigiana…. In tali condizioni si presentava un pericolo imminente per la conservazione delle quattro posizioni tenute della popolazione ebraica nel nord del paese, cioè: Tel hai, Cfar Ghiladi, Hammara e Metulla…. che erano sperse nel mare della campagna araba, lontane dal resto della popolazione ebraica – e la vallata di Hule, trasformata d’inverno in un pantano d’acque profonde,le separava dalla parte meridionale. Fra quelle posizioni e il sud non c’era quasi nessun collegamento, soltanto di rado e in momenti di eccezionale difficoltà qualcuno dei lavoratori arrivava fino dai compagni delle Kevuzoth della Galilea meridionale e riusciva a consegnare notizie di quel che era successo in quell’angolo isolato.” (pag. 140) Per avere un quadro storico quanto meno oggettivo e basato su dati di archivi, provenienti in special modo dall’Archivio Sionista Centrale di Gerusalemme, citiamo alcuni stralci del libro di Tom Segev, “One Palestine, Complete: jews and arabs under the british mandate”, Little, Brown Book Group, Boston, 2001, Capitolo 5 “Between Mohammed and Mr Cohen”: dopo il primo conflitto mondiale, “gli arabi avevano espresso tre richieste fondamentali: indipendenza, nessuna immigrazione ebraica e divieto di acquisto di terreni da parte degli ebrei. Le richieste venivano riformulate di volta in volta nei congressi nazionali, ma rimanevano sostanzialmente invariate. […] Citavano ripetutamente il diritto all’autodeterminazione nazionale e i principi democratici che il mondo aveva adottato dopo la guerra. […]Il movimento sionista seguiva da vicino lo sviluppo del nazionalismo arabo e gli archivi sionisti di Gerusalemme conservano rapporti di decine, forse centinaia, di informatori arabi situati in ogni città e in molti villaggi. La stampa ebraica pubblicava spesso traduzioni di articoli arabi che condannavano il sionismo. David Ben-Gurion conosceva il libro di Najib Azuri e diceva che conteneva “semi di odio”.” La paura dei sionisti derivava dal fatto che “gli inglesi avessero incoraggiato la ribellione araba contro i turchi, fornito assistenza militare e finanziaria e promesso l’indipendenza. Il principe Faisal era estremamente popolare in tutto il mondo arabo, compresa la Palestina. […] Egli rappresentava la loro aspirazione nazionale all’unità e considerava la Palestina, o «Siria meridionale», come parte del suo regno.” E “mentre Weizmann minimizzava le tensioni tra arabi ed ebrei nei suoi contatti diplomatici in tutto il mondo, la comunità ebraica in Palestina era meno ottimista riguardo alle future relazioni con gli arabi. Una discussione tenuta dai membri dell’Assemblea Provvisoria, un organo che rappresentava la comunità ebraica in Palestina, rivelò le loro preoccupazioni.” In aggiunta a questi problemi tra nazionalismo arabo e sionismo, vi era il sistema dei mandati, tra l’altro, imposto con gli accordi susseguitisi dopo la fine del primo conflitto mondiale. Secondo Segev, i mandati erano stati concepiti “per dare al colonialismo un aspetto più pulito e moderno. Le potenze alleate si astennero dal dividersi il bottino della conquista come in passato; piuttosto, si offrirono di fungere da “amministratori fiduciari” per i popoli arretrati, con l’apparente scopo di prepararli all’indipendenza. Si diceva che questa nuova forma di colonialismo incorporasse il diritto internazionale, nonché i principi di democrazia e giustizia, e rispettasse i desideri degli abitanti di ciascun paese. Concessi dalla Società delle Nazioni, i mandati potevano, in teoria, essere revocati dalla stessa. In realtà, però, il sistema postbellico era solo una rielaborazione del dominio coloniale.” In un contesto del genere, quindi, lo scontro in Palestina, specie nei tre anni dopo l’accordo Faisal-Weizmann, “si fece sanguinoso in Galilea, a Gerusalemme e a Jaffa, e gli ebrei subirono pesanti perdite. Quelle esperienze, traumatiche e formative, avrebbero plasmato le relazioni tra ebrei e arabi nei decenni successivi, inviando un chiaro segnale: il conflitto con gli arabi non sarebbe stato risolto con le parole, ma con la forza.” Ed è qui che si inserisce l’evento di Tel Hai: “All’epoca nella Galilea superiore vivevano poco più di cento ebrei, per lo più giovani uomini, con una minoranza di donne, tutti braccianti, pastori e contadini. Si erano inizialmente stabiliti a Metulla, vicino al Monte Hermon, poi si erano sparsi in tre località vicine, una delle quali era Tel Hai. I coloni si consideravano pionieri e emissari del popolo ebraico; secondo loro, la loro presenza su quella terra era una missione nazionale, un passo verso la realizzazione di un sogno. Rimasero lì il più a lungo possibile, nonostante le tensioni con i vicini arabi. Alcuni erano nati in Palestina, altri provenivano dall’Europa orientale e altri ancora erano arrivati dall’America con la Legione ebraica. Erano armati. La loro inclinazione era quella di tenersi alla larga dai problemi locali, ma ciò era impossibile. Di tanto in tanto avevano dato rifugio agli arabi o permesso ai soldati francesi di soggiornare sulle loro terre. Quando la tensione nella zona era aumentata, i leader ebrei erano divisi sul fatto di inviare forze di difesa in Galilea o di ordinare ai coloni di andarsene. Questo era uno di quei dubbi fondamentali che tormentavano periodicamente la comunità ebraica. Ze’ev Jabotinsky, una delle voci più militanti, riteneva che non ci fosse modo di difendere i coloni dell’alta Galilea. Chiese che venisse loro comunicato e che si trasferissero a sud. Dopo la guerra mondiale, il martirio aveva subito una forte svalutazione, scrisse. David Ben-Gurion si oppose a Jabotinsky: se gli ebrei fossero fuggiti dall’Alta Galilea, sarebbero stati presto costretti a lasciare tutta la Palestina. La disputa si trasformò rapidamente in una discussione sulla politica e sui valori fondamentali ed esistenziali: chi era patriota e “a favore” della Galilea, chi era disfattista e “contro” di essa. Alla fine, una delegazione sionista, di cui faceva parte David Eder, si recò in Galilea. Quando la delegazione arrivò, era ormai troppo tardi. Non si è mai capito esattamente cosa accadde a Tel Hai la mattina del 1° marzo 1920. Quel giorno non c’erano soldati francesi nascosti nella fattoria e gli ebrei di Tel Hai non opposero alcuna resistenza alla perquisizione da parte degli arabi. Uno dei coloni sparò un colpo in aria, un segnale per chiamare i rinforzi da Kfar Giladi, a due chilometri di distanza. Sentendo gli spari, una decina di uomini partirono per aiutare i coloni di Tel Hai. Erano guidati da Yosef Trumpeldor.[…]Il movimento sionista aveva bisogno dei suoi eroi e martiri, e ne aveva bisogno proprio in quel momento, proprio mentre il sogno dell’indipendenza ebraica stava per realizzarsi. Se gli eventi di Tel Hai non fossero accaduti, i sionisti avrebbero dovuto inventarli. L’insediamento, soprattutto nelle zone agricole, era un elemento fondamentale dell’identità nazionale, come la lingua ebraica. Un attacco a un insediamento era, quindi, un attacco alle fondamenta stesse della collettività sionista. Lo slogan “È bello morire per il nostro Paese” elevava la nazione e la terra al di sopra delle vite dei singoli individui. Tel Hai divenne anche il simbolo del principio secondo cui nessun insediamento doveva essere abbandonato. Il fatto che due insediamenti fossero stati evacuati dopo l’attacco non veniva generalmente menzionato. La sconfitta fu trasformata in una vittoria. […]Il mito di Tel Hai non solo fornì alla comunità ebraica in Palestina una storia di eroismo, ma servì anche a distogliere l’attenzione dal fallimento della leadership nell’aiutare i coloni dell’Alta Galilea. In una lettera a Weizmann, Eder avvertì che l’incidente non doveva essere presentato come prova dell’inimicizia tra ebrei e arabi. I sionisti, avvertì, dovevano stare molto attenti a non danneggiare gli arabi, che erano anch’essi alla ricerca di martiri.”
3 M. Rodinson, op. cit., pp. 28-29
4 “Survey of international affairs”, vol. I, London, p. 362
5 Cfr., “Survey of international affairs,” cit., p. 363
6 British White Paper Cmd 1770
7 Cfr., “Survey of international affairs”, p. 365
8 Ibidem, pp. 366-367. Per il testo integrale del Memorandum (British White Paper Cmd 1770), Royal Institute of International Affairs, Great Britain and Palestine 1915-1936, London, 1937, App. II, pp. 108-111. Nota del blog. Qui vi è il memorandum Churchill.
9 Chaim Weizmann, Saggi e discorsi, Firenze, 1924, pp. 25-26
10 Ibidem, p. 67
11 Ibidem, p. 74
12 Preambolo del mandato. Cfr. Mandate for Palestine, League of Nation, 1922, p. 1. Per il testo francese vedi A. Giannini, Documenti per la storia della pace orientale 1915-1932, Roma, 1933, pp. 198-205
13 Per il testo del mandato vedi A. Giannini, Documenti…, cit., pp. 199-200
14 Ibidem, pp. 200-201 e 204
15 Per il testo in italiano della Costituzione palestinese vedi A. Giannini, Le costituzioni degli Stati del Vicino Oriente, Roma, 1931, pp. 313-332. Nota del blog. Qui vi è la versione pubblicata su Oriente Moderno, a. II, n. 8, 15 Gennaio 1923, pagg. 454-461
16 “Survey of international affairs”, p. 368
17 Ibidem, p. 369
18 Ibidem, p. 369
19 Ibidem, p. 395-396
20 Ibidem, p. 372
21 Nota del blog. Il titolo completo di questo libro è “Le pays d’Israel : un marxiste en Palestine”. Scritto insieme alla moglie Jeanne Beeckman, in italiano vi è una recensione fatta da Virginia Vacca per la rivista “Oriente Moderno”, anno 9, n. 8, Agosto 1929, pag. 389: “Invitato dall’Esecutivo sionista a recarsi in Palestina quale osservatore imparziale, Emilio Vandervelde vi ha passato nella primavera del 1928 sei settimane visitando le colonie, gli opifici e le città, interrogando Ebrei rappresentativi e guardando ogni cosa con benevolo acume. La breve permanenza in Palestina fu preceduta da ampie letture e lunga consuetudine con i maggiori Sionisti; le simpatie dell’autore risultano subito evidenti. La questione palestinese peraltro si trova ancora nel suo periodo eroico e nebuloso; il movimento sionista non e di quelli che possono lasciare indifferenti,e muove necessariamente qualche passione in chiunque vi si interessi. Non si domandi, ad un libro come questo, la freddezza dello storico futuro, quando contiene abbondanza di notizie e di dati, impressioni fresche e precise, e onesta di giudizi. Dopo aver descritto nella prima parte le colonie, la città di Tel Aviv e le grandi istituzioni sioniste, l’autore espone gli scopi del sionismo, quali sono intesi (in modo talvolta contraddittorio) nei vari ambienti israeliti, lo sviluppo dell’ebraico parlato e dell’istruzione ebraica in Palestina, lo svolgimento e le forme della colonizzazione. I capitoli IV e V trattano delle influenze capitaliste in Palestina e della Palestina operaia e socialista. II problema è questo: le condizioni specialissime, politiche e sociali, in cui si svolge la colonizzazione ebraica, potranno permettere alla Palestina di passare da forme di vita economica primitive a forme superiori, senza attraversare lo stadio capitalistico. Le vicende di questi ultimi anni impongono all’autore una risposta negativa. La direzione del movimento sionista è passata dagli Ebrei dell’Europa orientale agli Ebrei inglesi e americani, contrari alla proprietà collettiva della terra; capitali anglosassoni finanziano grandi imprese industriali, ossia la concessione idroelettrica del Giordano, il porto di Caiffa, lo sfruttamento del Mare Morto, gli agrumeti. D’altra parte, le terre nella valle del Giordano,che l’irrigazione renderà preziose, potranno difficilmente sottrarsi alla speculazione, di cui si e già avuto un esempio per i terreni fabbricabili a TelAviv. Lo sviluppo del capitalismo appare inevitabile; ma il Vandervelde confida che valgano a modificarlo favorevolmente molti fattori ideali e pratici anteriori alla sua apparizione. Nel capitolo sulla Palestina operaia e socialista tratta dell’organizzazione generale del lavoro palestinese e della cooperazione, che sono abbastanza sviluppati per garantire eque condizioni di vita e di lavoro non solo agli Ebrei, ma anche ai lavoratori arabi; questi, quantunque estranei alle organizzazioni operaie, trarranno grandi benefici dall’aumento dei salari. Ottimista per l’avvenire della colonizzazione, il Vandervelde crede che le relazioni arabo-ebraiche siano destinate a migliorare (dato che per la maggioranza della popolazione indigena l’immigrazione porta nel campo economico più vantaggi che inconvenienti), purchè l’afflusso di nuovi immigranti sia molto lento e graduale; altrimenti anche coloro che non hanno interessi contrari dovrebbero inevitabilmente domandarsi quale sarà la sorte della loro religione e dei loro costumi, il giorno in cui comparissero nuove ondate ebraiche.Senza negare i motivi di buona armonia fra indigeni e immigrati, mi sembra che l’autore consideri poco le difficoltà di carattere religioso-psicologico, collegate a difficoltà politiche non indifferenti. Egli vede gli Arabi palestinesi in vitro, li isola dai paesi musulmani vicini. Quei paesi invece, con le loro istituzioni rappresentative che alla Palestina furono finora negate e sembra non saranno mai concesse nella stessa misura, con la solidarietà che, pur senza manifestazioni pratiche importanti, e vivamente sentita da ambo le parti, rappresentano per la Palestina araba un perpetuo incitamento alla resistenza e alle rivendicazioni. II volume, ricco di cifre, è completato da utilissime tabelle statistiche e da altri documenti. L’appendice della signora Vandervelde sulle opere assistenziali ebraiche è ottima.”
22 Nota del blog. Beniamino da Tuleda o Binyamin ben Yona, fu un rabbino nonché geografo ed esploratore spagnolo vissuto nel XII secolo. La sua opera più importante, “Il libro dei viaggi”, descrive i luoghi, le autorità, le comunità e le culture viste dal geografo, il tutto condito da fonti orali. La cifra che Vandervelde cita si riferisce alla presenza ebraica ad Aleppo. Qui il libro di Beniamino da Tuleda; la cifra riportata si trova a pag. 88.
23 Nota del blog. Joseph Schwarz fu un rabbino e geografo tedesco vissuto nel Diciannovesimo secolo. L’opera citata è “Das Heilige Land: Nach Seiner Ehemaligen Und Jetzigen Geographischen Beschaffenheit” (traduzione: “La Terra Santa: la sua conformazione geografica passata e presente”), pubblicata nel 1852.
24 Nota del blog. Ludwig August von Frankl fu un poeta e giornalista ebreo-austriaco. L’opera citata da Vandervelde è il secondo volume del libro di Frankl, “Nach Jerusalem” (traduzione: Verso Gerusalemme), pubblicato nel 1858.
25 Nota del blog. Qui l’articolo di Bachi. Il testo venne pubblicato su “La riforma sociale. Rivista critica di economia e di finanza”, Anno 36, 1929, Volume 40, Fascicolo 3-4, Marzo-Aprile 1929, pagg. 130-174. Questo estratto riportato da Goglia si trova a pag. 134.
26 Harry Viteless, A history of the cooperative movement in Israel: the evolution of the cooperative movement, London, 1956, pp. 10-12
27 Cfr. Herbert Sidebothan, Great Britain and Palestine, London, 1937, p. 90; Artur Ruppin, The agricultural colonization of the zionist organization in Palestine, London, 1926, p. 3
28 Cfr. A. Ruppin, op. cit., p. 4