È interessante, a questo punto, fare un parallelo con il movimento nazionale ebraico. Naturalmente interessa, per la nostra ricerca, l’ebraismo moderno e contemporaneo e, precisamente, il movimento politico di rivendicazione nazionale degli Ebrei della seconda metà del secolo XIX.
In questo senso, il precursore del sionismo può essere senz’altro considerato Moses Hess, il vecchio compagno di Marx della “Rheinische Zeitung” e dei “Deutsch-Franzosiche Jahrbucher”. Egli ci appare sinceramente appassionato ai problemi sociali e sensibile alle sorti del proletariato, ma assolutamente privo di un’organica e lucida capacità di analisi, di continuo travagliato intimamente e tendente al misticismo. Hess, che aveva dedicato le sue forze alla battaglia politica a difesa del proletariato, venne colpito dai fatti di Damasco del 1840.1 Ciò gli ricordò bruscamente il suo essere ebreo. Ma fu soltanto più tardi che egli tornò sulla questione ebraica per studiarla e per tracciarne una soluzione. Così scrisse e dette alle stampe, nel 1862, “Roma e Gerusalemme”, che possiamo considerare come il primo testo del sionismo, malgrado il libro contenga anche confessioni e pentimenti personali, molte idee abbozzate confusamente e non sviluppate e sia scritto sotto forma di lettere consolatorie ad un’amica in lutto per la morte del suo uomo. Hess concepì quest’opera come un ritorno in mezzo al suo popolo, che egli aveva abbandonato per vent’anni, e volle dedicarla “ai campioni magnanimi di tutti i popoli storici che lottano per il Risorgimento nazionale”. Anzi, come scrive Dante Lattes, “traendo dalle imprese dell’unità italiana l’ispirazione e gli auspici agli altri risorgimenti, vede nella liberazione della Città eterna sul Tevere l’inizio della redenzione della Città eterna sul monte Mario, il risolversi dell’ultima questione nazionale”.2
Su di un piano più reale, al di là delle elucubrazioni mistiche di Hess, lo scrittore ebreo Lev Pinsker 3 fu autore di un libro importante per la storia interna del sionismo, “Autoemancipazione”, edito nel 1882. Se Hess è il precursore del sionismo, Pinsker può essere considerato colui che gettò le basi del sionismo inteso come movimento nazionalistico ebraico, volto, cioè, alla ricostruzione della patria ebraica. La diversità tra l’opera di Hess e quella di Pinsker è nella maggiore lucidità e capacità analitica del secondo e, soprattutto, nella coscienza che Pinsker ha della sua opera, laddove Hess si perde nel labirinto dei problemi mai risolti del suo “spirito”.
Ma anche con Lev Pinsker non abbiamo ancora il teorico politico, sebbene essenzialmente un moralista, che imposta il problema ebraico in termini politici generali. Pinsker, insomma, fu una figura morale che operò il risveglio delle coscienze. Egli scrisse: “Il problema come noi lo vediamo consiste essenzialmente in questo: che gli Ebrei formano di fatto, in mezzo alle nazioni fra cui vivono un elemento eterogeneo che non può essere assimilato, che non può essere facilmente digerito da alcuna nazione.”4
Pinsker non credeva più all’emancipazione concessa dai governi, perché in tutta l’Europa Orientale gli ebrei erano oppressi e riteneva, anzi, che essi dovessero guadagnarsi l’indipendenza, innanzitutto con le proprie forze. Scrisse ancora nel già citato “Autoemancipazione”: “Adesso viviamo tuttora sotto il peso opprimente dei mali che ci avete inflitto. Ciò che ci manca non è il genio, ma è il rispetto di noi stessi e la coscienza dell’umana dignità che voi ci avete tolto.”5
Qui l’autore individuò con grande chiarezza il risultato del razzismo antisemita che, tra l’altro, mira alla disumanizzazione degli Ebrei, teorizza la loro inferiorità morale e in tempi recenti anche quella fisiologica. Pinsker colse l’aspetto più drammatico e bestiale del razzismo, quello di volere levare ad altri uomini il riconoscimento di piena umanità che si attribuisce, nel modo più generale, all’essere umano. Comunque il limite dell’autore sionista, come quello di tutti i dottrinari e scrittori sionisti, da allora fino ai nostri giorni, fu quello di accontentarsi del risultato senza volere analizzare concretamente i reali fattori storici che l’hanno prodotto. L’autore di “Autoemancipazione”, quindi, non compì un’analisi storica politica, ma si limitò a tracciare delle linee generali. Egli scrisse: “La lotta degli Ebrei per l’unità politica e per l’indipendenza nazionale non solo ha la sua giustificazione in sé, come lotta di ogni altro popolo oppresso, ma deve anche attirare le simpatie di coloro cui siamo – a torto o ragione – molesti. Questa lotta va condotta con tale spirito da esercitare una pressione irresistibile sulla politica internazionale contemporanea e allora l’avvenire ne dimostrerà gli effetti”.6
Sarà quindi l’azione patriottica del popolo ebraico che trasformerà necessariamente questo popolo in una nazione unita. Sarà questa lotta politica che premerà sulla diplomazia internazionale. Queste parole, però, non trovarono alcuna applicazione concreta. Fu Herzl che, rovesciando l’impostazione di Pinsker, e cioè portando in primo piano l’azione politica sionista, come azione diplomatica tesa a trovare l’appoggio delle grandi potenze, diede programmi concreti al sionismo. Pinsker, comunque, si rivelò un sionista decisamente democratico, perché cercò sinceramente di legarsi alle masse ebraiche perseguitate. Egli, inoltre, con una mirabile assenza di fanatismo, non pose assolutamente come necessario il problema del “ritorno” in Palestina. A questo proposito egli scrisse: “La meta delle nostre aspirazioni non deve essere la Terra Santa, ma una terra nostra”.7 E ancora: “Forse la Terra Santa potrà ridiventare anche la nostra patria. Se sarà così tanto meglio! Ma prima di tutto dobbiamo decidere – e questo è il punto essenziale – quale è il paese che possiamo ottenere e che al tempo stesso sarà capace di offrire agli Ebrei di tutti i paesi, che saranno costretti ad abbandonare le loro case, un rifugio sicuro e incontrastato, un luogo in cui essi possano trovare un lavoro produttivo.”8
Per mettere bene a fuoco il contributo fondamentale di Pinsker al sionismo, citiamo quest’ultimo passo dal suo “Autoemancipazione”: “L’unico giusto rimedio è la ricostruzione della nazione ebraica, di un popolo vivente sul suo suolo – l’autoemancipazione degli Ebrei – la loro eguaglianza di nazione fra le nazioni mediante la conquista pacifica di una terra propria.”9
Pinsker ci appare così il primo scrittore sionista nel senso di nazionalismo ebraico che il termine ha acquisito, ma dobbiamo sottolineare che tutto il suo libro è dettato dalla necessità pressante di far sfuggire alla persecuzione, ed a tremende condizioni di vita, le molte centinaia di migliaia di Ebrei dell’Europa Orientale. In una certa misura, egli si rese conto che il problema ebraico moderno è quello dell’ebraismo orientale. Il suo sionismo, quindi, ha questo grande sfondo umanitario, che non chiude il suo pensiero nel fanatico settarismo, colorato di tutte le tinte, tipico di quasi tutti i teorici e politici sionisti dopo Pinsker. Certamente non possiamo affermare che egli abbia colto il problema ebraico alla radice, come fece, al contrario Marx nel suo celebre scritto “La questione ebraica.”10
Quando Pinsker scriveva il suo libro, in Russia lo zarismo individuava nei sudditi ebrei il capro espiatorio del suo tristo governo e indirizzava il malcontento popolare contro di essi. I famigerati pogrom colpivano decine e decine di migliaia di Ebrei. In molti casi era la stessa polizia 11, o agenti provocatori da questa stipendiati, che guidava facinorosi sottoproletari, e gente disperata per la fame, all’uccisione di masse inermi di Ebrei, all’assalto armato dei quartieri ebraici.12
Questo stato di cose esasperava gli Ebrei dell’Europa Orientale, che, oltre ad essere sottoposti ad una legislazione discriminatoria, erano anche perseguitati e massacrati. Pochi tra gli Ebrei più giovani e avventurosi partirono allora per la Palestina con le Hoveve Sion. Altri, la quasi totalità, emigrarono nell’Europa Occidentale e negli Stati Uniti d’America, nel momento in cui l’espansione industriale di questo paese richiedeva una grande quantità di mano d’opera e creava un gran numero di posti di lavoro. Lev Pinsker morì nel 1903, quando a capo delle organizzazioni Hoveve Sion (Amanti di Sion), associazioni di Ebrei orientali che avevano come scopo la fondazione in Palestina di colonie agricole ebraiche. Un altro pensatore ebreo ha un posto di rilievo nella storia del movimento sionista, si tratta di Ascher Ginzberg (1856-1927), che scrisse sotto lo pseudonimo di Ahad Haam (uno del popolo ebraico).13
Ahad Haam è conosciuto come il teorico del cosiddetto sionismo culturale o spirituale. Egli, infatti, sostenne che lo scopo del sionismo doveva essere quello di fondare in Palestina il centro spirituale dell’ebraismo mondiale. Ciò che contava, era salvare lo spirito ebraico, e quindi, dal suo punto di vista, il nemico principale dell’ebreo non era l’antisemitismo, ma l’assimilazionismo. Perché, con l’assimilazione, l’ebreo non era più tale. L’amore per la Terra Santa, quindi, è un fatto spirituale. Con Ahad Haam, dal piano sia pure moralistico, ma in fondo politico, di Pinsker, ci si trasferisce nel campo dello spirito non in modo retorico e allucinato come nel caso di Moses Hess, Egli è essenzialmente una personalità mistica, ma il suo apporto al sionismo è, comunque, notevole per il fascino che esercitarono i suoi scritti. Egli era alieno da ogni creazione politica reale e tanto meno era un trascinatore di masse: aveva una personalità aristocratica ben lontana dalla realtà della vita e della lotta politica.
Teodor Herzl invece fu una mente essenzialmente politica: egli, a giusta ragione, è considerato il massimo teorico e il fondatore del sionismo politico. Herzl, senza conoscere gli scritti dei sionisti che lo avevano preceduto 14, tracciò le linee fondamentali dell’ideologia nazionalista ebraica. A questo proposito è opportuno esaminare nei suoi aspetti essenziali e significativi il libro di Herzl, “Der Judenstaat” 15, edito nel 1896, nel quale egli pose, con estrema chiarezza, le basi della politica sionista. Herzl affermò: “Io non ritengo il problema ebraico né come un problema sociale, né come un problema religioso, sebbene possa prendere queste e altre sfumature. Esso è un problema nazionale e per risolverlo dobbiamo anzitutto farne una questione di politica universale che si dovrà regolare nel consesso dei popoli civili. Noi siamo un popolo, un popolo.”16
Così Herzl sembra, in una certa misura, cominciare da dove Pinsker aveva finito e compie un passo avanti nella politicizzazione del problema. Infatti, oltre ad affermare l’unità del popolo ebraico e a porre la questione ebraica come una questione nazionale (la saldatura tra popolo ebraico e principio nazionale è il fondamento primo della politica sionista fino ai giorni nostri) Herzl fece, del problema ebraico, una “questione di politica universale”, da risolvere a livello internazionale. E proprio in questo si differenziò da Pinsker, perché pose l’accento sull’azione diplomatica, intesa come momento centrale della politica sionista. Individuato il principio, Herzl passò all’esame dei mezzi atti a porlo in pratica, e concepì due organismi: a) la “Society of Jews” che doveva essere la persona morale; b) la “Jewish Company” che doveva essere l’ente industriale.
Egli scrisse: “Per la purezza della persona morale garantisce il carattere dei suoi membri. La sufficiente forza della persona giuridica è provata dal suo capitale.”17 E ancora: “La Jewish Company è in parte pensata secondo il modello delle grandi società per l’occupazione dei territori.”18
La grande personalità politica di Herzl era determinata dalla sua capacità di porre gli ideali sionisti sul piano concreto. Egli ebbe il piglio e la fermezza del grande uomo di Stato. Herzl non cedette a sentimentalismi e, pur essendo possibilista ed anche opportunista, non fu mai doppio, ma, al contrario, sempre estremamente chiaro. Egli non ebbe reticenze ed ambiguità; il suo discorso politico fu sempre coerente con le premesse.19 Egli delineò, così, la struttura della “Jewish Company”, prendendo a modello le grandi compagnie colonialiste europee.20 E tema continuo di paragone in Herzl fu il riferimento costante alle strutture dell’organizzazione coloniale. Quando volle indicare il tipo di ufficiale necessario all’esercito ebraico prese a modello gli ufficiali degli eserciti coloniali.21
Quando trattò brevemente della vita all’interno di questo Stato ebraico, Herzl tralasciò, per un momento, l’austero pionierismo e affermò che il lusso doveva essere una componente della vita sociale del nuovo paese, perché ciò era necessario al tenore di vita dei grandi uomini d’affari. I grandi finanzieri, i capitalisti, sono, per Herzl, assolutamente necessari alla causa sionista ed egli fece il possibile per legarli agli ideali politici del suo movimento. Con le sue parole: “Del lusso abbiamo bisogno per diversi scopi, specie per l’alta industria.”22
Ed altrove scrisse, a proposito del procedimento di raccolta del denaro per il fondo nazionale ebraico: “del resto all’alta banca non si chiede affatto di raccogliere un sì enorme importo a titolo di beneficenza, il che sarebbe una pretesa assurda; i fondatori e gli azionisti della Jewish Company devono piuttosto concludere un buon affare e potranno in precedenza rendersi conto delle probabilità di profitto che loro si presentano.”23
Herzl, così, sgombrò il terreno da ogni sentimentalismo patriottico e ridusse alla sua reale essenza il problema dei finanziamenti, che furono, in effetti, considerati come dei veri e propri investimenti di capitale. Investimenti che, in quanto tali, avevano come fine un vantaggio economico, un beneficio finanziario.
Quando Herzl affrontò il problema della colonizzazione sionista pensò di risolvere,in primo luogo, gli aspetti puramente tecnici della questione. Scrisse, infatti: “Questi delegati alla presa di possesso hanno tre compiti:
1) l’esatta esplorazione scientifica di tutte le proprietà naturali del territorio;
2) la fondazione di una amministrazione rigidamente accentrata;
3) la ripartizione del paese.”24
I compiti dei “delegati alla presa di possesso” erano così tecnici, da non comprendere un grosso problema, e cioè la presenza di eventuali popolazioni locali. Infatti, come abbiamo già notato, Herzl trattò esclusivamente l’accaparramento delle risorse del paese, la rigidità dell’amministrazione, la spartizione della terra. Quando Herzl scriveva queste righe i paesi considerati dal punto di vista della colonizzazione ebraica erano essenzialmente due: l’Argentina e la Palestina. L’Argentina, perché il miliardario e filantropo ebreo barone Maurice Hirsch 25 aveva incoraggiato l’emigrazione ebraica in una regione non popolata di questo grande paese, dove aveva acquistato delle miniere per cinquanta milioni di franchi negli ultimi decenni del XIX secolo.26
E forse nella regione mineraria del barone Hirsch, sperduta nel gran paese argentino, il problema effettivamente poteva essere limitato alle condizioni materiali del suolo e alla suddivisione dell’area a disposizione, ma per la Palestina il discorso doveva essere necessariamente diverso. Il fondatore del sionismo, invece, considerò il problema della popolazione indigena della Palestina con queste parole 27: “La Palestina è la nostra patria storica indimenticabile…, per l’Europa, noi rappresenteremmo colà un pezzo del vallo contro l’Asia, copriremmo l’ufficio di avamposti della civiltà contro la barbarie.”28
Herzl, ponendo la questione in questi termini, corse sui binari tradizionali del colonialismo di ogni tempo. L’occupazione sionista della terra palestinese venne presentata come un’operazione di civiltà. Infatti Herzl compì questa equazione: Europa=civiltà, sionismo=civiltà, quindi Europa e sionismo=civiltà contro l’Asia (cioè gli Arabi palestinesi ed eventualmente tutti gli Arabi)=barbarie.
Così per la prima volta gli Ebrei furono opposti agli Arabi. Traendo le nostre conclusioni sul libro di Herzl, il più volte citato “Der Judenstaat”, che costituisce il maggior apparto teorico al sionismo, possiamo individuare con precisione una serie di elementi interessanti:
1) lo Stato ebraico è uno Stato la cui struttura economica è capitalistica;
2) questo stesso Stato è fondato sullo schema delle colonie di popolamento e su quello imprenditoriale delle grandi compagnie di sfruttamento dei territori coloniali;
3) l’amministrazione statale è rigidamente accentrata e la forma di governo auspicata da Herzl è quella di una monarchia costituzionale o di una repubblica aristocratica.29
A livello ideologico Herzl non espresse gli ideali democratici di gran parte della borghesia europea. Herzl non si pose mai dei problemi di democrazia, di libertà, non soltanto teorici, s’intende, ma politici, quindi estremamente concreti; i suoi problemi furono la “questione ebraica”, “lo Stato ebraico”. A lui interessò la efficienza del movimento sionista, quella dei suoi dirigenti, l’effettiva capacità del movimento stesso di raggiungere i suoi obiettivi. La sua fisionomia politica fu quella del nazionalista, non dell’accezione patriottica del termine, bensì nell’accezione che acquisì questa parola alla fine del XIX secolo e agli inizi del XX secolo in Europa. E come ulteriore conferma (in relazione a quanto abbiamo esaminato finora) citiamo ancora un passo di Herzl: “La fratellanza universale non è neppure un bel sogno: il nemico è necessario per più alti sforzi della personalità.”30
È chiaro che la fratellanza universale è niente più che una bella frase, specie se intesa polemicamente, come in questo caso, nei suoi termini più astratti e metastorici dell’uomo fratello dell’altro uomo; però la necessità del nemico, individuato come fattore essenziale per più alti sforzi della personalità, è una proposizione che storicamente appartiene a quel pensiero nazionalista che si sviluppò in Europa nel momento in cui il capitale finanziario monopolistico europeo diveniva imperialista, spingendo le grandi potenze all’occupazione delle ultime terre de mondo, non ancora colonizzate, e all’accaparramento delle materie prime.
Mentre il sionismo cominciava a diffondersi e i fautori del progetto di Herzl erano molto più numerosi tra gli ebrei orientali, che tra quelli occidentali 31, il movimento patriottico arabo, nonostante la sconfitta del 1882, era ancora vivo.
Il vero continuatore del programma nazionalistico del 1882 può essere considerato Mustafa Kamil (1874-1908). Egli fu il più deciso teorico del principio della sovranità nazionale, quasi un “apostolo” dell’indipendenza. Fondò nel 1900 il giornale “La bandiera” (“al Liwà”). Il suo partito fu ufficialmente costituito soltanto nel 1907 e fu chiamato Partito Nazionale (al-Hizb al-Watani).32
I principi fondamentali di questo partito erano:
1) cessazione dell’occupazione e di ogni ingerenza straniera;
2) istituzione di un governo costituzionale e di un regime parlamentare democratico;
3) riconoscimento dei legami formali con la Porta;
4) unità nazionale al di sopra delle differenze religiose.
Il riconoscimento del legame formale con la Porta era, in parte, in un funzione antinglese, in parte, un omaggio al panislamismo.
Il partito di Mustafa Kamil fu sciolto nel 1912, in seguito alla scoperta di un complotto rivoluzionario contro il Khedive e il generale Kitchener, allora comandante delle truppe britanniche d’occupazione e governatore del Sudan.33
Gli anni 1904 e 1905 registrarono due avvenimenti degni di considerazione. Nel 1904, Ibn Saud Abdal-Aziz divenne padrone di tutto il Neged nella penisola arabica, dopo una guerra di due anni contro i Turchi, si rese padrone dello Yemen, nella parte meridionale della penisola arabica.34
In entrambi i casi si trattò di rivolte arabe, contro gli occupanti Turchi, dirette dai capi feudali della regione e dai capi tribù beduini, nomadi e pastori. Evidentemente non si può parlare, per esse, di rivolte progressiste, di tipo democratico, in quanto sia la famiglia saudiana, che quella Yahya, instaurarono, nelle rispettive regioni, un regno tribale religioso a carattere assolutistico. Anche questo fenomeno, comunque, riveste una certa importanza all’interno del movimento nazionale arabo.
Infatti anche questi Arabi del deserto, pur nelle loro arcaiche condizioni di vita, posero fine alla sudditanza ottomana, sconfiggendo militarmente le truppe straniere d’occupazione (quelle turche) e creando uno Stato nazionale. Date le condizioni complessive di quelle regioni, in cui l’unica classe dirigente e politicamente attiva era quella dei nobili terrieri, dei capi religiosi e dei capi tribù, una volta che queste province si fossero staccate dall’impero ottomano, era inevitabile che si trasformassero in regni feudali.
Passando ad esaminare l’attività sionista, vediamo che Herzl, esaurito il discorso teorico, sottopose la sua proposta politica alla approvazione dei grandi finanziari e capitalisti ebrei. All’inizio incontrò diffidenza e indifferenza, ma la costanza e la passione di Herzl, da una parte, la prospettiva di avviare a soluzione la questione dei poveri Ebrei orientali perseguitati che emigravano in massa negli Stati Uniti e nell’Europa Occidentale 35, e la prospettiva di buoni investimenti, dall’altra, fecero sì che la saldatura tra grande finanza ebraica e programma sionista fosse un fatto compiuto. Naturalmente, questo processo di identificazione a livello di classe non fu un fatto veloce e immediato e costò ad Herzl parecchie delusioni.36
Il 1897 fu un anno importante per il sionismo: il 27 Agosto Herzl convocò a Basilea il primo congresso sionista. Il congresso durò tre giorni ed Herzl vi fu acclamato con l’antica formula biblica che salutava il re d’Israele.37 La centrale dell’organizzazione venne posta a Vienna.38
Il fondatore del sionismo procedette con coerenza all’attuazione del suo programma. Venne, quindi, il momento di porre il problema dello “Stato ebraico” a livello internazionale. Herzl intese interessare le grandi Potenze alla sua iniziativa politica e chiedere la protezione e l’appoggio particolare di una di queste per realizzare il programma sionista.
Nell’Ottobre 1898, Herzl incontro a Costantinopoli il Kaiser Guglielmo II, in visita al sultano Abdul Hamid II. Egli propose all’imperatore tedesco la fondazione di una compagnia di sviluppo di territorio in Palestina, diretta dai sionisti, ma sotto la protezione tedesca. I vantaggi per la Germania sarebbero stati: 1) liberarsi di una buona parte degli Ebrei tedeschi; 2) acquisire una valida posizione strategica nel Mediterraneo Orientale.
Il Kaiser non formulò nessuna risposta precisa al riguardo, ma ascoltò la proposta di Herzl. Il 2 Novembre dello stesso anno, a Gerusalemme, Herzl incontrò nuovamente il Kaiser 39: questa volta ottenne una risposta precisa, però del tutto negativa. Guglielmo II sosteneva, infatti, che una intromissione tedesca, del tipo proposto dai sionisti, negli affari interni dell’impero ottomano sarebbe risultata certamente sgradita alla Gran Bretagna, alla Francia ed alla Russia ed avrebbe messo, oltretutto, sul piede d’allarme queste tre gran potenze.40
Fallito questo primo tentativo della diplomazia sionista, Herzl pensò di rivolgersi direttamente al sultano ottomano. Nel 1901 andò a Costantinopoli per incontrare Abdul Hamid II. Scrisse il diplomatico americano William Yale: “Negli incontri e nelle note inviate ad Abdul Hamid fece due proposte sbalorditive: la prima, di rifondere, tramite un sindacato di banchieri ebrei, la Turchia dei suoi debiti e liberarla dalla tutela economica delle grandi Potenze; la seconda, che il sultano concedesse una patente ad una compagnia ebraica per lo sviluppo agricolo e la colonizzazione ebraica.”41
Ciò accade proprio mentre il sultano turco aveva in corso trattative con la Francia per ottenere una serie di prestiti finanziari. Abdul Hamid non dette ad Herzl alcuna risposta precisa e tanto meno immediata. Fece presente che nel suo impero non si conosceva alcuna discriminazione contro gli Ebrei e che la minoranza ebraica viveva in perfetta tranquillità. Più tardi aggiunse che avrebbe accettato immigrazioni sporadiche di piccoli gruppi di Ebrei, a patto che questi rinunciassero alla loro cittadinanza e acquisissero quella ottomana e che non avessero alcun legame di diritto tra loro.42
Herzl fece ancora presente al sultano che si sarebbe potuto fondare a Gerusalemme una università moderna, bene attrezzata, con qualificato personale docente ebraico, in modo da evitare che la gioventù studiosa turca dovesse frequentare università europee ed essere così influenzata da idee liberali e progressiste.
Ma Abdul Hamid II non potè accettare l’offerta sionista; il suo impero, “il grande malato”, soffriva di una nuova malattia, il nazionalismo arabo e il despota turco non poteva aiutare una minoranza del suo impero a divenire una nazionalità aspirante all’indipendenza. Il sultano sapeva del congresso sionista di Basilea del 1897, in cui il movimento sionista a grande maggioranza aveva definito la Palestina la patria degli Ebrei, e rinunciò così ad importanti aiuti finanziari pur di non turbare ulteriormente il precario equilibrio del suo impero.43
Nell’Ottobre 1902, l’Esecutivo sionista prese contatti con il Governo britannico allo scopo di ottenere parte della penisola del Sinai, la zona di el-Arish, per l’emigrazione ebraica.
Nel Regno Unito il movimento sionista era molto forte, o per lo meno, attraverso rapporti diretti tra capi sionisti, membri del Governo di Sua Maestà e influenti uomini politici, il movimento era in grado di interessare l’opinione pubblica britannica, e lo stesso Governo, ai piani sionisti.44
A metà Novembre dell’anno 1903, il Governo britannico, attraverso il ministro delle colonie Joseph Chamberlain 45, offrì l’Uganda, territorio dell’Africa Orientale inglese, per la colonizzazione ebraica.46
Herzl era disposto ad accettare questa offerta, seppure in via provvisoria, ma il VI congresso sionista47 non fece nulla di più che mandare una commissione tecnica nel territorio in questione.
Continua…
Note
1Dante Lattes, Il sionismo, 2 voll., Roma, 1928, vol. I, p. 49; Barnet Litvinoff, La lunga strada per Gerusalemme, Milano, 1968. Un racconto molto preciso sui fatti di Damasco è in Enzo Sereni, La Comunità di Roma e l’affare di Damasco, in “Rassegna mensile d’Israele” (1927), n. 2-3, pp. 87-98. [nota del blog: l’articolo verrà messo nell’Appendice] Era successo che un cappuccino italiano (suddito savoiardo), Fra Tommaso di Sardegna, era scomparso con il suo servitore e il console di Francia a Damasco, Ratti Menton, era riuscito a deviare i sospetti delle autorità e della popolazione da un carrettiere turco, con il quale tempo prima della sua scomparsa il frate aveva avuto un vivace alterco e che aveva minacciato di ucciderlo, contro gli ebrei, accusandoli di aver ucciso i due cristiani per il famigerato, falso sacrifico rituale di Pasqua. Si scatenò allora a Damasco e da lì per il mondo, un’ondata di antisemitismo.
2D. Lattes, op. cit., vol. I, p. 49. Per la traduzione italiana del Rom und Gerusalem, vedi M. Hess, Roma e Gerusalemme, Roma, 1957
3Israel Cohen, A short history of Zionism, London, 1951, pp. 25-27; D. Lattes, op. cit., vol. I, pp. 63-68
4Lev Pinsker, Autoemancipazione, Firenze, 1922, p. 3
5L. Pinsker, op. cit., p. 19
6Ibidem, p. 77
7Ibidem, p. 30
8Ibidem, p. 31
9Ibidem, p. 45. Dante Lattes, nel suo importante libro sul sionismo, già citato a p. 68 del Vol. I, così riassume molto efficacemente la linea politica di Pinsker: “1) Decisione nazionale di volere la libertà, coscienza assoluta della patria. 2) Congresso nazionale convocato dalle grandi società ebraiche già esistenti, oppure Istituzione nazionale o Direttorio creato nel seno di quelle società, che rappresenti l’unità nazionale ed assuma la direzione degli affari ebraici. 3) Ricerca nell’uno o nell’altro continente di un territorio adatto a divenire l’asilo sicuro e inviolabile per la popolazione ebraica costretta ad emigrare: gli Ebrei d’occidente possono rimanere dove sono. 4) Società per azioni o Compagnia per l’acquisto del terreno, in America o nella Turchia d’Asia (Palestina o Siria): se nell’America settentrionale, la regione potrebbe costituire un piccolo “stato”, se nella Turchia, dovrebbe ottenersene la neutralità della Porta e delle grandi Potenze. 5) Fondo alimentato da una sottoscrizione nazionale. 6) Appoggio dei governi.”
10A proposito della questione ebraica, Marx affermò, nel 1843, l’unica, reale, soluzione politica del problema; l’unica operazione logica autenticamente emancipatrice. Scrive Marx: “Non trasformiamo i problemi terreni in questioni teologiche: trasformiamo le questione teologiche in problemi terreni” (Karl Marx, La questione ebraica, in Annali Franco-Tedeschi, Milano, 1965, p. 269). E ancora: “Il problema della capacità d’emancipazione dell’ebreo si trasforma per noi nel problema di quale particolare elemento sociale debba essere superato per eliminare l’ebraismo. Infatti la capacità d’emancipazione dell’ebreo odierno s’identifica col rapporto tra l’ebraismo e l’emancipazione del mondo moderno” (Ibidem, p. 294). Il problema per Marx non è particolare, non è solo degli Ebrei che si devono emancipare, ma è quello di portare avanti un nuovo processo storico di emancipazione non politica, cioè formale, cioè borghese, ma sociale, che non riguardi solo gli Ebrei, ma tutte le componenti sociali interessate a scrollarsi di dosso l’oppressione dello Stato borghese.
11Norman Cohn, Licenza per un genocidio. I “protocolli degli anziani di Sion”: storia di un falso, Torino, 1969, p. 78
12Questi pogrom sono chiaramente dei veri e propri atti delinquenziali, ma, sempre all’interno di questa loro evidente natura criminale, non sono storicamente inspiegabili. Gli Ebrei, nella Russia zarista, avevano una precisa collocazione sociale, nella grande maggioranza mercantile, anche se nella seconda metà del XIX secolo cercarono di inserirsi nel processo di capitalizzazione dell’agricoltura, come nota Renzo De Felice in un suo intervento su “Società”, IX (1953), n. 3, a proposito del libro di J. W. Parkes, Il problema ebraico nel mondo moderno, Firenze, 1953. Agli inizi del secolo scorso, in Russia, gli Ebrei rappresentavano ancora ciò che essi furono nell’Europa Occidentale durante l’epoca feudale, prima dell’ascesa della borghesia mercantile, artigiana, finanziaria e manifatturiera cittadina. Scrive Abram Leon nel suo libro fondamentale sulla questione ebraica, “Il marxismo e la questione ebraica” (Roma, 1968, p. 155) che nelle tre regioni dell’Ucraina, Lituania e Russia Bianca, secondo il censimento russo del 1818, la composizione sociale della comunità ebraica era la seguente: commercianti 86,5%, artigiani 11,6%, agricoltori 1,9%. Gli Ebrei allora prestavano denaro ai signori e ai contadini (ibidem, p. 155) e avevano perfino un proprio servizio postale (ibidem, p. 156). Questo nel 1818. Nel 1882, la situazione era cambiata di molto; anche la Russia subiva la trasformazione capitalistica dell’economia e quindi la divisione del lavoro che questa comporta. Così le condizioni economiche della grande maggioranza dei commercianti e artigiani ebrei precipitò e fu questo il motivo fondamentale dell’emigrazione di masse sempre più numerose di Ebrei verso l’Occidente. Comunque, nel 1882, nelle masse popolari non era ancora spento il ricordo dell’usuraio ebreo, il contadino povero non aveva dimenticato i suoi utensili di lavoro tante volte impiegati e così l’operaio e i piccolo-borghesi poveri della città. Il Governo e la polizia zarista sfruttarono il ricordo non buono delle masse popolari e degli strati inferiori della piccola borghesia del male socio-economico ricevuto degli Ebrei in tempi che ormai anche in Russia erano passati. E gli Ebrei vennero, così, scelti come capro espiatorio di una situazione economica sempre più gravosa per le masse popolari, proprio quando ormai il loro ruolo economico-sociale non era già più quello che li aveva caratterizzati, nella storia del mondo, nell’epoca pre-capitalistica, dall’antichità alla fine del feudalesimo.
13D. Lattes, op. ci., vol. I, p. 73; Leonard Stein, Zionism, London, 1925, pp. 92-93; M. Beilinson, [Le fasi del pensiero sionistico esposte da un sionista], Oriente Moderno, vol. II, 1922, p. 68. Nota del blog: citiamo per intero la suddetta pagina nominata da Goglia: “In tali condizioni i primi tentativi di colonizzazione, sia dei Bilu che della società di Pinsker, dettero risultati piuttosto scoraggianti. La difficoltà del lavoro agricolo, la scarsita dei mezzi finanziari, l’impreparazione degli uomini, le continue vessazioni delle amministrazioni, le gravi tasse del fisco turco, la poca sicurezza del paese, tutto aggravava l’opera dei pionieri. L’unico aiuto finanziario venne loro da Edmondo de Rothschild, l’unico dei finanzieri ebrei che abbia soccorso l’opera palestinese; ma passarono ancora molti anni prima che il movimento si consolidasse e le colonie potessero vivered ei mezzi propri. Tale situazione non poteva non produrre un’impressione deprimente negli ambienti sionistici. Essa offrì anzi occasione alla produzione letteraria di uno scrittore, che ha avuto poi un’influenza straordinaria su tutto il movimento palestinese, Asher Ginzberg. Sotto il pseudonimo di Ahad Haam, egli pubblicava nel 1889, nella rivista ebraica “Hamelitz”, un articolo dal titolo: “Non e questa la via”, in cui sottoponeva a severa critica il metodo dei Choveve Sion. Quell’articolo fu seguito da numerosi altri,in cui si rispecchiava il pensiero chiaro, conseguente, logico del Ginzberg. Egli distingue fra la condizione incerta in cui si trovano gli Ebrei, come individui e come popolo, e quella che affligge l’ebraismo inteso come civiltà. Per la prima, cioè per le persecuzioni, per l’antisemitismo, ecc. Ahad Haam non sa additare il rimedio; comunque sia, esso non si trova nelle colonie ebraiche di Palestina. Del resto le inferiorità dell’individuo ebreo lo interessano meno della degenerazione e della decadenza dello spirito e della civiltà ebraica. È necessario salvare prima di tutto e sopra tutto questo spirito ebraico, il quale è più prezioso degli Ebrei, presi come singoli individui. II massimo pericolo da scongiurare non e quindi l’antisemitismo, ma l’assimilazione; e nella lotta contro questo pericolo la Palestina può rendere servizi incomparabili. Come primo passo si deve risvegliare negli Ebrei l’amore per la Terra Santa; quindi, grazie agli sforzi comuni di tutti gli Ebrei del mondo, si deve creare in Palestina un “centro spirituale”, che sia come una miniatura della società ebraica normale e che non pretenda neppur di risolvere tutto il complesso problema, ma di costituire soltanto un rifugio allo spirito ebraico, una fiaccola la cui luce si irradi in tutti i paesi della dispersione. Scuole, licei, università, accademie scientifiche e letterarie, riviste e libri, modeste colonie agricole, la lingua ebraica come lingua parlata: ecco ciò che la Palestina può dare all’ebraismo. La crisi ebraica e soprattutto una crisi spirituale, prodotta dall’assimilazione e dall’emancipazione; gli Ebrei hanno perduto la fede in se, l’equilibrio psichico dato dalla coscienza del valore dell’ebraismo; essi sono diventati schiavi spiritualmente, e devono essere liberati spiritualmente. Questo, e non più, dovrebbe essere il compito del centro spirituale ebraico in Palestina.” In questa pagina Belinson segnala due note a piè pagina che riguardano Ginzberg/Ahad Haam: la prima riguarda il suo lavoro, i cui articoli “sono raccolti, sotto il titolo “Al Parasciat Derachim” [“Al bivio”], in quattro volumi. Alcuni sono stati pubblicati nella versione italiana dalla casa editrice “Israel”, Firenze, 1922”; la seconda sulla sua critica e proposta: “Ahad Haam non si e limitato a far la critica del Sionismo dei Choveve e ad elaborare la teoria del “centro spirituale”. Nei suoi articoli egli ha tentato di rispondere a tutti i problemi spirituali dell’ebraismo filosofico e religioso. Qui non possiamo far altro che tracciare brevemente la sua concezione palestinese, alla quale egli e rimasto fedele fino ad oggi, anche quando il movimento prendeva proporzioni ben pjù ampie. Egli vive ora [1922, nota del blog] in Palestina. La sua influenza è stata grande anche come rinnovatore dello stile ebraico.”; I. Cohen, op. cit., p. 35; Ahad Haam, La morale nazionale, in “Rassegna mensile d’Israele” (1926), n. 1-2
14I. Cohen, op. cit., p. 41
15Il libro uscì a Vienna il 14 Febbraio 1896
16Teodoro Herzl, Lo Stato ebraico, Roma, 1955, p. 60
17Ibidem, p. 66
18Ibidem, p. 70
19Il biografo sionista di Herzl, Baruch Hagani, Vita di Teodoro Herzl, Roma, 1919, p. 112, racconta che Joseph Chamberlain, ministro delle Colonie del governo britannico (deciso fautore del più aggressivo imperialismo) riconosceva in Herzl un uomo della sua tempra. Nota del blog: Hagani, in questa parte, cita e sintetizza a sua volta lo scrittore sionista André Spire, “Quelques Juifs”, Mercure de France, 1913, pag. 113. Il testo di Hagani venne pubblicato a puntate ne “La Rassegna Mensile di Israel”, Vol. 9, nn. 3-4, 5-6, 7, 8-9 con l’introduzione di Dante Lattes.
20“Herzl, giurista accorto, vi pensò a lungo: una compagnia sovrana, liberamente costruita su modello delle grandi compagnie coloniali inglesi del XIX secolo.” B. Hagani, op. cit., p. 77
21T. Herzl, op. cit., p. 87
22Ibidem, p. 87
23Ibidem, pp. 97-98
24Ibidem, p. 116
25D. Lattes, op. cit., p. 83
26B. Hagani, Vita di Teodoro Herzl, Roma, 1919, p. 26
27T. Herzl, op. cit., p. 77
28Scrive B. Hagani: “Appena la scelta di Herzl, — alla ricerca d’una terra per i suoi fratelli di razza, — che, nello “Stato ebraico”, esitava ancora fra l’Argentina e la Palestina, si fu fermata su quest’ultima, egli intravvide i vantaggi di ogni specie che potevano derivare dall’opera di valorizzazione di quel paese, non solo per gli Ebrei, ma per la Turchia stessa e per l’intera Europa.” Op. cit., pp. 73-74
29“La fisionomia del Kaiser, almeno quale si disegnava verso il 1890, quando dopo aver congedato Stocker e accettato le dimissioni di Bismark, prendeva le redini del governo, rispondeva per più di un lato all’ideale che Herzl si faceva di un principe moderno.” B. Hagani, op. cit., p. 81
30T. Herzl, op. cit., p. 125
31I. Cohen, op. cit., p. 44
32Francesco Gabrieli, Gli arabi, Firenze, 1957, p. 200 e La civiltà arabo-islamica, cit., pp. 173-174
33F. Gabrieli, Il risorgimento arabo, cit., pp. 50-54; H. Zaki Nuseibeh, op. cit., pp. 145-147
34A. Giannini, L’ultima fase della questione orientale 1913-1932, Roma, 1933, p. 220
35A questo proposito Abram Lèon, nel suo libro fondamentale, già citato, a p. 207, scrive: “A Parigi il barone Rothschild, che come tutti i magnati ebrei guardava di mal occhio l’arrivo in massa di immigrati ebrei nei paesi occidentali, cominciò ad interessarsi alla colonizzazione ebrea della Palestina. Aiutare gli sfortunati fratelli a ritornare nella terra dei loro avi, vale a dire ad andarsene il più lontano possibile, non poteva dispiacere alla borghesia ebrea dell’occidente, che temeva, a ragione, l’ascesa dell’antisemitismo.”
36“Nel Giugno 1895 s’incontrò a Parigi con il barone Maurizio de Hirsch…Herzl cercò di convincere il barone del suo progetto di Stato ebraico, ma il barone restò scettico al riguardo…Allora Herzl così si rivolse a lui: “Andrò a trovare l’imperatore di Germania e gli dirò lasciateci partire. Io mi permetto di indicarvi le vie ed i mezzi grazie ai quali il nostro esodo non cagionerà alcuna perturbazione, alcun vuoto dietro di sé.”” B. Hagani, op. cit., pp. 26-28. Come riferisce Israel Cohen, “il barone de Hirsch credeva soltanto nei metodi filantropici: era contrario ad ogni soluzione politica della questione ebraica.” Op. cit., p. 43. Scrive Litvinoff che de Hirsch non riusciva a capire perché mai gli Ebrei volessero diventare una nazione (op. cit., p. 70) e che Rotschild si rifiutò perfino di ricevere Herzl (ibidem, p. 71)
37I. Cohen, op. cit., p. 46
38Ibidem, p. 47
39Così B. von Bulow (Memorie, Milano, 1930, vol. I, p. 265): “Dinanzi alla porta per la quale facemmo il nostro ingresso, una deputazione di sionisti volle svolgere un’allocuzione all’Imperatore. Alla testa di essa era il dott. Theodor Herzl, fine pubblicista viennese animato di santo zelo per la causa del sionismo. Egli era stato presentato all’Imperatore Guglielmo dal Granduca del Baden. Gugliemo II fu dapprima tutto fuoco e fiamme per l’idea sionista, perché per suo mezzo sperava di liberare il suo paese da molti elementi che non gli erano particorlamente simpatici. Ma quando l’Ambasciatore turco d’allora a Berlino, che ci accompagnò nel nostro viaggio in Oriente, gli ebbe spiegato che il Sultano non voleva saperne del sionismo e di uno Stato giudaico indipendente, egli lasciò cadere la causa sionista e ricusò di ricevere i suoi rappresentanti in Sionne”.
40Alan R. Taylor, Prelude to Israel, London, 1961, pp. 6-7
41W. Yale, Il vicino oriente, Milano, 1962, p. 178
42B. Hagani, op. cit., p. 97
43“Lo scopo del sionismo è di creare per il popolo ebreo in Palestina una terra patria universalmente e legalmente riconosciuta.” Estratto dalla dichiarazione finale del congresso sionista di Basilea del 1897. W. Yale, op. cit., p. 179; Goodman Paul e Lewis Arthur, Zionism: problems and views, London, T. Fisher Unwin LTD, 1916, p. 9
44Il progetto di El-Arish fallì perché il Khedive d’Egitto non acconsentì alla costruzione di un canale d’acqua del Nilo (che nei piani della commissione sionista di esperti sarebbe dovuto passare sotto il canale di Suez) per irrigare il deserto di el-Arish, condizione indispensabile per un numeroso popolamento ebraico della zona. B. Hagani, op. cit., p. 112
45Joseph Chamberlain (1836-1914), deputato dal 1876, fece parte del ministero Gladstone nel 1880. Nel 1886 si oppose al progetto di Home-Rule per l’Irlanda. Fu fautore del rafforzamento dell’impero britannico e sostenne il protezionismo doganale. Fu ministro delle Colonie dal 1895 al 1905 e diresse la guerra contro i boeri. Fu una delle figure più significative dell’imperialismo inglese della seconda metà dell’Ottocento e dei primi del Novecento. Per il razzismo e l’antisemitismo di Joseph Chamberlain, vedi Denis Judd, Balfour and the British Empire, New York, 1968, pp. 99-100. Nota del blog: André Spire, in “Quelques juifs”, riporta quanto segue: “Tuttavia, nel 1903 pensò di essere vicino al traguardo. Joseph Chamberlain, ministro inglese delle Colonie che aveva riconosciuto in Herzl una natura affine alla sua e che aveva anche nelle vene qualche goccia di sangue ebraico, era appena tornato dal suo famoso viaggio di pacificazione nel Sudafrica dopo la guerra contro i boeri. Dovette attraversare nell’Africa orientale un territorio inglese senza alcuna popolazione inglese, né tanto meno bianca, l’altopiano di Uasin Gishu. Pensò che sarebbe stato nell’interesse della sua patria attirare in quel vasto paese sano, dove crescevano la canna da zucchero e il cotone, una popolazione laboriosa ed energica guidata da quel giovane eroe che amava l’Inghilterra. Herzl accettò l’offerta di Chamberlain e la trasmise al sesto Congresso Sionista nel 1903. «Per la prima volta, disse Zangwill, dopo milleottocentotrenta anni, una regione, senza dubbio non del tutto appropriata, ma che grazie alle vaste distese di un entroterra non occupato avrebbe potuto diventare un nucleo di riconcentrazione, un paese sostenuto da tutte le immense risorse dell’Impero inglese, era stata messa a disposizione di un popolo disprezzato e odiato. »Herzl, pur non ignorando il colpo che la sua proposta avrebbe inferto ai nazionalisti palestinesi più esaltati, rimase sconvolto dalla violenza dell’esplosione. Il Congresso cadde nel caos. L’accettazione del territorio africano (continuamente indicato erroneamente con il nome di Uganda) fu considerata un tradimento nei confronti di Gerusalemme.” (pag. 113) Riguardo la citazione delle pagine libro di Judd fatto da Goglia, riportiamo il seguente pezzo tradotto: “Sebbene Balfour e Chamberlain potessero avere opinioni diverse sui metodi, c’erano ampi settori politici su cui erano d’accordo. Entrambi desideravano una maggiore cooperazione tra la Gran Bretagna e le colonie autonome, anche se vedevano modi diversi per raggiungere questo obiettivo. Inoltre, entrambi credevano nelle presunte virtù uniche della razza anglosassone. Ma anche in questo caso l’enfasi era diversa. Chamberlain si vantava: «Sono stato definito l’apostolo della razza anglosassone e sono orgoglioso di questo titolo… Penso che la razza anglosassone sia la migliore al mondo». Questo patriottismo razziale inequivocabile non era privo di pericoli e Chamberlain poteva, in rare occasioni, scivolare nell’antisemitismo. Balfour, d’altra parte, si accontentava più di speculare divertito sul dono anglosassone di “cavarsela” che di lanciare appelli alla unità razziale. L’antisemitismo non entrò minimamente nella sua filosofia politica. Anzi, era un sostenitore eccezionale del sionismo e, quando nel maggio 1930 era in fin di vita, l’ultimo visitatore fu il suo amico Chaim Weizmann, la cui causa Balfour aveva abbracciato molto tempo prima e con grande efficacia. Se la famosa Dichiarazione Balfour del 1917 e il lutto per la comunità ebraica nel 1930 assolvono Balfour dall’antisemitismo, Chamberlain non può vantare la stessa indulgenza. Inoltre, la sua campagna di riforma tariffaria dopo le dimissioni del settembre 1903 fu caratterizzata, nelle sue fasi successive, da un netto accento anti-stranieri.” (pagg. 99-100)
46T. Fisher, op. cit., p. 90; B. Hagani, op. cit., p. 113
47Questo congresso criticò anche, e con asprezza, l’incontro che Herzl ebbe in Russia con il ministro zarista Von Plehve, il quale, come ministro degli Interni, era a capo della polizia ed era giustamente ritenuto responsabile di molti pogrom. Herzl, comunque, riuscì ad ottenere da lui il permesso ad attività sionistiche dirette alla costituzione di un focolare in Palestina. Israel Cohen, op. cit., p. 53