Mother Earth, Ottobre 1914, Vol. IX, n. 8, pagg. 260-4
Nelle prime fasi del primo conflitto mondiale, le propagande pro-guerra dilagarono come fiumi in piena in tutti i paesi europei. Il movimento operaio si spaccò a metà: una parte vide la guerra come strumento o mezzo per arrivare alla tanto agognata rivoluzione sociale; l’altra parte, invece, denunciò il conflitto come mezzo di risoluzione tra borghesie contrapposte. L’anarchica di origine lituana Emma Goldman si batté contro la guerra e le mistificazioni propagandistiche. L’articolo che presentiamo è un estratto del “David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore. Considerazioni inattuali”1 di Friedrich Nietzsche, pubblicato ai tempi sul giornale anarchico statunitense “Mother Earth”.
Secondo la stampa e una parte del mondo intellettuale dell’Europa anglo-francese dei tempi, la filosofia di Nietzsche era una delle tante rappresentazioni dello spirito barbaro, incolto e cattivo della popolazione tedesca. 2
La pubblicazione di questo estratto da parte di Goldman demistificava il cosiddetto militarismo nicciano. Il filosofo tedesco, in questo scritto, dimostrò come l’equiparazione tra esercito forte e ordinato e cultura superiore fosse completamente e totalmente sbagliato. Partendo dal contesto tedesco post-guerra contro la Francia (1870-71) e tutta la propaganda vittoriosa di Guglielmo I e Bismarck, Nietzsche evidenziò come i modelli culturali germanici di quel momento storico risultassero uguali (e non superiori) a quelli dei nemici sconfitti. Nel periodo in cui visse il pensatore di Röcken, l’omologazione della cultura europea trovò la sua massima espressione non solo nelle arti visive – la cui massima espressione fu la “Belle Époque” – ma anche in quelle politico-culturali e militari ben rappresentate, per esempio, dalle violenze spietate e razziste nei territori africani e asiatici (Cina in particolare).
La critica contro l’uniformazione e, al contempo, il sostegno ad un elitismo basato non sulla sopraffazione ma su un pluralismo tra singoli individui (quindi al di fuori della dominazione deistico-statale imperante) fu la base su cui si poggiò il pensiero nicciano.
Alla luce di questo, secondo Goldman non si poteva accusare Nietzsche di essere il padre della Grande Guerra (e qualsivoglia conflitto guerreggiato borghese, aggiungiamo). Uno come Nietzsche, che aveva messo “sotto accusa lo Stato, la folla danarosa, l’aristocrazia parassitaria e soprattutto la canaglia sottomessa e arrendevole”3, non poteva essere né ora e né mai l’incarnazione della violenza e della guerra voluta dall’impero tedesco. Semmai, per l’anarchica lituana i veri responsabili del primo conflitto mondiale erano i cosiddetti Paesi civilizzati: costoro si erano impegnati “per decenni in preparativi “scientifici” di vasta portata […], utilizzando la maggior parte della “ricchezza nazionale” negli equipaggiamenti militari e macchine assassine.” 4
A fare eco a queste parole redatte da una fervida lettrice del pensiero nicciano come Goldman5, vi furono, nel caso italiano, alcuni anarchici individualisti ostili all’interventismo “libertario”. 6
Val la pena menzionare non soltanto il giornale “Il Ribelle” (1914-1915) – con cui si voleva “dimostrare al mondo che l’individualismo anarchico negava la patria e la guerra” 7 – ma la testimonianza del suo ex fondatore e redattore, Carlo Molaschi, rilasciata anni dopo su “Pagine Libertarie”:
“1914: la guerra! Non mi sorprese; compresi però che era una cosa mostruosa contro la quale era dovere insorgere. Nel periodo nel quale l’Italia rimase neutrale mi buttai capofitto nella battaglia. Fu allora che sorse Il Ribelle e sorse appunto per dimostrare al mondo che l’individualismo anarchico negava la patria e la guerra. Il Ribelle lo scrissi con pensiero nietzschiano. Anche se qualcuno affermava che Federico Nietzsche era il padre spirituale della grande guerra mondiale, io persistevo nel credere che l’individuo libero doveva negare la propria vita alla guerra dei padroni. Le guerre dei nostri tempi non sono altro che mostruosi giuochi di borsa ai quali l’uomo deve sottrarsi. Si sgozzino pure i padroni. Chi non ha interessi in giuoco deve disertare l’inutile tragedia. Queste le idee da me sostenute nel Ribelle. Il Ribelle usci per dieci numeri. Poi, in una ser[ie] di dimostrazioni, venni arrestato. Rimasi incarcerato per circa un mese. Quando tornai libero, l’interventismo era padrone assoluto della situazione […]Colla guerra Il Ribelle morì.”8
Sebbene sia passato più di un secolo, la presunta supremazia culturale di entità sovranazionali in riarmo (Unione Europea) e singoli territori in guerre dichiarate (Ucraina e Russia) o per procure (Iran e Israele) permane e resiste. Il discorso nicciano riportato in questo estratto è, quindi, ancor oggi attuale: la presunta superiorità della propria cultura – e anche razza, aggiungiamo -, sono uno specchio per le allodole che mostra tutto il carattere violento tipico degli Stati e del Capitale e incatena gli individui alle logiche macellaie di potere.
===========================================
Introduzione di Mother Earth
Molti direttori di giornali e altri lettori non meno superficiali di Nietzsche – tra cui alcuni anarchici individualisti – hanno attaccato selvaggiamente Nietzsche come “responsabile” della “guerra” europea. Gli studenti più profondi del grande poeta-filosofo lo apprezzano come un acerrimo oppositore della guerra – il quale vedeva chiaramente la distinzione tra lo spirito della cultura e lo spirito dell’impero. Il seguente estratto di Nietzsche non lascia dubbi sul suo atteggiamento in materia.
In Germania sembra quasi che la pubblica opinione vieti di parlare delle cattive e pericolose conseguenze della guerra, specialmente di una guerra terminata vittoriosamente: tanto più volentieri vengono invece ascoltati quegli scrittori che non riconoscono un’opinione più importante di quella pubblica, e che perciò si sforzano a gara di esaltare la guerra e di seguire con giubilo i poderosi fenomeni della sua influenza su moralità, cultura e arte. Tuttavia diciamolo: una grande vittoria è un grande pericolo. La natura umana la sopporta più difficilmente di una sconfitta; anzi sembra perfino che sia più facile riportare una tale vittoria che sopportarla in modo che non ne derivi una più grave sconfitta. Ma di tutte le cattive conseguenze che l’ultima guerra condotta con la Francia si trae dietro, la peggiore è forse un errore diffuso, anzi generale: l’errore della pubblica opinione e di tutti coloro che nutrono pubbliche opinioni, consistente nel credere che in tale lotta abbia vinto anche la cultura tedesca, e che quest’ultima debba perciò essere ora adornata con le ghirlande che si convengono a eventi e a successi tanto straordinari. Quest’illusione è sommamente rovinosa, forse non perché è un’illusione – infatti esistono errori oltremodo salutari e benefìci – bensì perché essa è capace di trasformare la nostra vittoria in una completa disfatta: nella disfatta, anzi nell’estirpazione dello spirito tedesco a favore dell’«impero tedesco».
Pur ammettendo che due culture avessero lottato fra loro, il criterio per misurare il valore di quella vincente rimarrebbe sempre molto relativo, e date le circostanze, non autorizzerebbe affatto un giubilo di vittoria o un’autoglorificazione. Giacché importerebbe sapere che valore aveva la cultura soggiogata: magari questo era molto piccolo, e in questo caso anche la vittoria, pur se ottenuta con clamorosissimo successo delle armi, non giustificherebbe per la cultura vincitrice la pretesa di un trionfo. D’altra parte, per le più semplici ragioni, nel nostro caso non si può parlare di una vittoria della cultura tedesca: la cultura francese continua infatti a esistere come prima, e noi dipendiamo da essa come prima. Neanche al successo delle armi essa ha contribuito. Severa disciplina militare, naturale valore e perseveranza, superiorità dei comandanti, unità e obbedienza dei comandati, insomma elementi che non hanno niente a che fare con la cultura, ci portarono alla vittoria su avversari a cui mancavano i più importanti di questi elementi: solo di questo ci si può meravigliare, che ciò che oggi in Germania si chiama «cultura» abbia ostacolato così poco questi requisiti militari necessari per un grande successo, forse solo perché questo qualcosa che si dice cultura ha giudicato più vantaggioso per sé mostrarsi questa volta servizievole. Se lo si lascia crescere e lussureggiare, se lo si vizia con la lusinghiera illusione di essere stato vittorioso, esso ha la forza di estirpare, come dicevo, lo spirito tedesco – e chissà se poi si potrà fare qualcosa del corpo tedesco che rimane!
Se fosse possibile suscitare quel coraggio impassibile e tenace, che il Tedesco contrappose al patetico e repentino impeto del Francese, contro il nemico interno, contro quella «culturalità» sommamente equivoca e in ogni caso antinazionale, che in Germania viene oggi chiamata, con pericoloso equivoco, cultura, non tutte le speranze di arrivare a una vera e schietta educazione tedesca, l’opposto di quella culturalità, sarebbero perdute: ai Tedeschi infatti non sono mai mancati i capi e i condottieri più intelligenti e arditi – solo che a questi spesso mancarono i Tedeschi. Ma che sia possibile dare al coraggio tedesco questa nuova direzione, diventa per me sempre più dubbio e, dopo la guerra, ogni giorno più improbabile; giacché vedo come ognuno sia convinto che non ci sia più affatto bisogno di una lotta e di un tale coraggio, che anzi la maggior parte delle cose sia già ordinata nel modo più bello possibile, e che in ogni caso tutto ciò che occorre sia già da lungo tempo trovato e fatto, insomma che dappertutto il miglior seme della cultura in parte sia seminato, in parte si sia cambiato in fresca verzura, e qua e là addirittura in rigogliosa fioritura. In questo campo non c’è soltanto contentezza, ma si trova felicità ed ebbrezza. Sento quest’ebbrezza e questa felicità nel contegno incomparabilmente sicuro dei giornalisti e dei fabbricatori tedeschi di romanzi, di tragedie, di liriche e di storie: giacché questa è evidentemente una società omogenea, che sembra aver giurato di impadronirsi delle ore di ozio e di digestione dell’uomo moderno, cioè dei suoi «momenti culturali», e di stordirlo allora con la carta stampata. Per questa società tutto si risolve oggi, dopo la guerra, in felicità, dignità e coscienza di sé: essa si sente, dopo tali «successi della cultura tedesca», non solo confermata e sanzionata, bensì quasi sacrosanta, perciò parla più solennemente, ama rivolgere discorsi al popolo tedesco, pubblica opere complete com’è uso per i classici, e proclama anche effettivamente, nei fogli mondiali a sua disposizione, alcuni nuovi classici e scrittori esemplari tedeschi, traendoli dal suo seno. Bisognerebbe forse aspettarsi che i pericoli di un siffatto abuso di successo dovessero essere conosciuti dalla parte più giudiziosa e istruita della classe colta tedesca o che per lo meno da questa l’aspetto penoso dello spettacolo dato dovesse essere sentito: giacché cosa può essere più penoso del vedere che il deforme se ne sta davanti allo specchio impettito come un gallo e scambia occhiate ammirative con la sua immagine? Ma le classi istruite lasciano volentieri che accada ciò che accade, e hanno già abbastanza da fare con se stesse, per poter ancora prendere su di sé la preoccupazione per lo spirito tedesco. Inoltre i loro membri sono convinti col massimo grado di sicurezza che la loro propria educazione sia il frutto più maturo e più bello del tempo, anzi di tutti i tempi, e non capiscono affatto una preoccupazione per l’educazione generale tedesca, in quanto sono riguardo a se stessi e agli innumerevoli loro pari molto al di sopra di tutte le preoccupazioni di tal genere. A un più accurato osservatore, specialmente se è straniero, non può del resto sfuggire che, fra ciò che oggi il dotto tedesco chiama la sua formazione e quella trionfante «cultura» dei nuovi classici tedeschi, sussista un contrasto solo riguardo alla quantità del sapere: dovunque venga in questione non il sapere, ma il saper fare, non la scienza, ma l’arte, cioè dovunque la vita debba fornire testimonianza della specie della formazione, c’è oggi una sola «cultura» tedesca – e questa avrebbe vinto sulla Francia?
Questa affermazione appare pertanto completamente incomprensibile: secondo tutti i giudizi imparziali e infine secondo gli stessi Francesi il vantaggio decisivo è stato riconosciuto proprio nel più ampio sapere degli ufficiali tedeschi, nel maggior grado di istruzione delle truppe tedesche, nella più scientifica condotta di guerra. Ma in qual senso potrebbe ancora pretendere di aver vinto la «cultura» tedesca, se si volesse separare da essa l’istruzione tedesca? In nessuno: giacché le qualità morali di più severa disciplina e di più tranquilla obbedienza non hanno niente a che fare con la formazione, e distinguevano per esempio gli eserciti macedoni di fronte agli eserciti greci, incomparabilmente più coltivati. Si fa solo una confusione quando si parla della vittoria della formazione e della «cultura» tedesche, una confusione che riposa sul fatto che in Germania il puro concetto di cultura è andato perduto.
Cultura è soprattutto unità di stile artistico in tutte le manifestazioni vitali di un popolo. Ma il molto sapere e la molta erudizione non costituiscono un mezzo necessario della cultura, né un segno di essa, e si conciliano all’occorrenza nel miglior modo con il contrario della cultura, la barbarie, ossia la mancanza di stile o la caotica confusione di tutti gli stili.
Appunto in questa caotica confusione di tutti gli stili vive il Tedesco dei nostri giorni; e rimane un serio problema come possa essergli possibile, con tutta la sua istruzione, non accorgersi di ciò e rallegrarsi per giunta di vero cuore della sua presente «cultura». Eppure tutto dovrebbe aprirgli gli occhi: ogni sguardo al suo abbigliamento, alle sue camere, alla sua casa, ogni passeggiata per le strade delle sue città, ogni sosta nei magazzini dei negozianti di moda; in mezzo ai rapporti sociali dovrebbe acquistar coscienza dell’origine delle sue maniere e dei suoi movimenti, in mezzo ai nostri istituti d’arte e alle gioie dei concerti, dei teatri e dei musei, dovrebbe rendersi conto del grottesco accostamento e della sovrapposizione di tutti gli stili possibili. Il Tedesco accumula intorno a sé le forme, i colori, i prodotti e le curiosità di tutti i tempi e di tutti gli ambienti, producendo in tal modo quella moderna varietà di colori da fiera, che i suoi dotti dovranno poi per parte loro considerare e formulare come il «moderno in sé»; quanto a lui, in questo tumulto di tutti gli stili se ne rimane tranquillamente a sedere. Ma con questa specie di «cultura», che è comunque solo una flemmatica insensibilità per la cultura, non si possono vincere nemici, e meno di tutti quelli che abbiano, come i Francesi, una vera cultura produttiva, non importa di qual valore, e di cui noi abbiamo finora imitato tutto, per lo più inoltre senza abilità.
Se avessimo realmente cessato di imitarli, con ciò non avremmo ancora vinto su di loro, ma soltanto ci saremmo liberati da loro: solo quando avessimo imposto a essi una cultura tedesca originale, si potrebbe parlare anche di un trionfo della cultura tedesca. Frattanto prendiamo nota del fatto che, in tutte le questioni di forma, noi dipendiamo – e dobbiamo dipendere – da Parigi ora come prima: finora infatti non c’è stata una cultura tedesca originale.
Noi tutti dovremmo sapere questo di noi stessi: lo ha inoltre rivelato anche pubblicamente uno dei pochi che avessero diritto di dirlo ai Tedeschi in tono di rimprovero. «Noi Tedeschi siamo di ieri,» disse una volta Goethe a Eckermann «è vero che da un secolo abbiamo fatto veramente molto, ma possono trascorrere ancora un paio di secoli prima che fra i nostri connazionali penetri e divenga comune tanta intelligenza e superiore cultura, che si possa dire di loro che è passato molto tempo dacché essi erano barbari».
Note del Blog
1Per evitare di fare una traduzione dall’inglese, abbiamo preso la versione tradotta in italiano di Sossio Giametta – e pubblicato nel 1971 dalla casa editrice Adelphi.
2Questa costruzione culturale derivava, principalmente dal celebre “Discorso degli Unni” – conosciuto come il “Discorso del Kaiser Guglielmo II al Corpo di spedizione tedesco prima della partenza per la Cina” – del 27 Luglio 1900. All’epoca, l’imperatore tedesco enunciò tale discorso dopo l’assassinio del diplomatico tedesco Von Kettler da parte dei rivoltosi cinesi (rivolta dei Boxer). Lo spirito di vendetta implacabile e manifesto di Guglielmo II si inseriva nelle vaste e variegate politiche borghesi-militaristiche tedesche di fine Ottocento-inizio Novecento.
3“Observations and comments”, “Mother Earth”, Vol. IX, n. 11, Gennaio 1915 pag. 341
4Ibidem
5A tal merito si veda questo pezzo tratto dall’autobiografia di Emma Goldman, “Vivendo la mia vita. Volume 1”, La Salamandra, Milano, 1980, pag. 164: “A Vienna si potevano ascoltare interessanti conferenze sulla prosa e sulla poesia tedesche moderne. Inoltre, si potevano leggere le opere dei giovani artisti e letterati iconoclasti, tra i quali il più audace era senz’altro Nietzsche. Il fascino quasi magico del suo linguaggio, la bellezza della sua visione elevarono il mio spirito, portandolo ad altezze che non avrei mai potuto immaginare. Avrei voluto divorare i suoi libri dalla prima all’ultima pagina, ma ero troppo povera per acquistarli. Fortunatamente, Grossman aveva una buona raccolta di opere di Nietzsche e di altri scrittori moderni. Per leggere dovevo rubare le ore al sonno, di cui avevo tanto bisogno; ma che cos’era la fatica fisica in confronto all’estasi che Nietzsche mi procurava? Il fuoco della sua anima, il ritmo del suo canto mi arricchivano e rendevano lamia vita più piena, più bella. Desideravo condividere questa scoperta con l’uomo che amavo, e gli scrissi lunghe lettere nelle quali descrivevo il mondo nuovo che mi si apriva dinanzi agli occhi.”
6Ci si riferisce alle pubblicazioni “anarco-guerresche” quali “La Sfida. Giornale di polemica anarchica” (Ottobre 1914) e “La guerra sociale. Giornale anarchico interventista”(Febbraio-Aprile 1915).
7Citazione riportata da Leonardo Bettini. Vedere Il Ribelle. Quindicinale antiguerresco
8“Dal superuomo all’umanità”, Pagine Libertarie, anno II, n. 1, 15 Gennaio 1922, pagg. 20-1.