La strage di Sant’Anna di Stazzema

Una delle tante archiviazioni provvisorie della Procura Generale Militare della Repubblica. Il fascicolo in questione tratta della strage di Castelbaldo (25 Luglio 1944)

La guerra, tanto osannata oggi giorno dagli uomini politici e da fini storici accademici intellettuali – i quali la invocano come un ripristino della tempra maschia europea -, è un toccasana per chiunque non si ritrovi in situazioni del genere e/o chi ha voglia di sfogare le proprie pulsioni nel macellare animali della propria specie.
Che importa delle vittime quando il gesto è bello!”, diceva a fine Ottocento Laurent Tailhade quando l’anarchico Vaillant, nel 1894, lanciò una bomba dentro il parlamento francese. Se estrapoliamo questa frase fuori dall’ottica provocatrice ed estetica esternata da Tailhade – che da anarchico divenne successivamente nazionalista francese -, e la inseriamo nel contesto comunicativo guerresco odierno, si palesa in tutto e per tutto il verospirito” di tutti questi signori del potere (politico, economico, culturale).
La bellezza della distruzione e morte, degli stupri e dei traumi e chi più ne ha, più ne metta, sono il viatico per eccellenza nel soddisfare una supposta natura umana violenta: dall’arrivo al fronte ucraino di persone russe amnistiate dopo esser state condannate per crimini sessuali all’uso indiscriminato di bombe su scuole e ospedali palestinesi, fino al terrorismo poliziesco e mediatico ai danni delle popolazioni native della cosiddetta America Latina.
La violenza guerresca dilaga a tutti i livelli. Chi rinfocola tutto questo sono quei personaggi che oggi parlano della guerra come mezzo per la pace e, allo stesso tempo, piangono ipocritamente sulle stragi e le responsabilità nazi-fasciste del periodo 1943-45 – archiviate e insabbiate per quasi mezzo secolo in un armadio della cancelleria della procura militare di Roma.
Nel 78esimo anniversario della strage di Sant’Anna di Stazzema, pubblichiamo alcuni stralci tratti dal libro di Franzinelli Mimmo, “Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna. Impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001”, Mondadori, Milano, 2003, e del Quarto Capitolo “Il principio dello sterminio. Le Waffen-SS e la «lotta alle bande»” del libro di Gentile Carlo, “I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-1945)”, Einaudi, Torino, 2015, che trattano di questo atto terroristico commesso dalle SS e opportunamente nascosto dalle autorità italiane dopo il secondo conflitto mondiale.

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Un dato assai significativo concerne la tempestività delle segnalazioni degli eccidi, che talvolta precedettero l’ingresso delle truppe alleate nelle località colpite da rappresaglia. La strage di Sant’Anna di Stazzema, perpetrata il 14 agosto 1944 in una remota zona montana delle Alpi Apuane, giunse a conoscenza delle autorità militari statunitensi nel giro di pochi giorni, grazie all’interrogatorio di un disertore tedesco e di due civili che avevano passato le linee. Il 15 settembre s’insediò presso il quartier generale della 5a armata una commissione d’inchiesta presieduta dal maggiore Edwin S. Booth del Tribunale supremo militare, che raccolse le testimonianze dei sopravvissuti; poi, appena ritiratisi i tedeschi, una pattuglia britannica si portò nel villaggio montano per l’immediata ricognizione dell’eccidio.
Tra i documenti più sconvolgenti sulle dinamiche di questa strage vi è la deposizione del sottotenente Antonio Tucci, unico scampato della sua numerosa famiglia:
Il giorno 12 agosto, in seguito ad azioni dei partigiani nelle zone circostanti, la SS tedesca si diede ad azione di rappresaglia, specialmente nel paese di Sant’Anna, frazione del Comune di Stazzema (Lucca), dove uccise la quasi totalità degli abitanti senza distinzione di età e di sesso, bruciando tutte le abitazioni ed i cadaveri. In tale dolorosa ed orribile circostanza ho perduto gli otto miei cari figliuoli, tutti minori di età, e la mia povera cara moglie. Due ore prima dell’eccidio mi trovavo al di fuori della cinta, e precisamente a Val di Castello, dove mi ero rifugiato avendo saputo che giungevano i tedeschi per rastrellare tutti gli uomini validi. Avendo saputo dell’eccidio consumato dalla SS tedesca, corsi subito a Sant’Anna in cerca dei miei famigliari e trovai circa più di cento cadaveri carbonizzati davanti allo spiazzale della chiesa ed in mezzo a questi potei riconoscere solo la mia povera moglie con in braccio l’ultima bambina di tre mesi. A tale spettacolo ho avuto paura di perdere la ragione e sono corso come un forsennato a Val di Castello, ove fui ospitato da amici e tenuto occultato per la presenza della SS tedesca che, in quel luogo, continuava il rastrellamento degli uomini e la fucilazione di altri 14 uomini. Per paura che io potessi reagire e provocare altre rappresaglie da parte della SS tedesca, fui tenuto chiuso vari giorni.

Le indagini sull’eccidio di Sant’Anna di Stazzema avrebbero poi accumulato notevoli ritardi data la mancata coordinazione tra i giudici militari statunitensi, britannici e italiani, nonché per la sovrapposizione di competenze e la scarsa condivisione di dati tra Corte d’assise straordinaria di Lucca, Tribunale supremo militare di Roma e Procura militare di Bologna. […] Ecco un campionario rappresentativo dei fascicoli sui crimini di guerra, riguardante oltre un centinaio di situazioni giudiziarie occultate fraudolentemente (alla trascrizione dal ruolo generale si sono aggiunti – tra parentesi quadre – sintetici ragguagli sulla data, sulle modalità e sulle dimensioni del reato, ristabilendo in alcuni casi la grafia corretta dei nominativi): […]

Sant’Anna di Stazzema (Lucca) – n. 1976 – Maggiore delle SS Mayar, tenenti Cremen, Valmier Alfredo e Grin Bruno, soldati Raman Alfredo e Ziller Giuseppe; violenza con omicidio e strage, incendio e distruzione; parte lesa: Bertelli Dina [recte: Disma] ed altri; archiviazione provvisoria 14 gennaio 1960, trasmissione alla Procura militare di La Spezia 8 marzo 1995. [Il 12 agosto 1944 militari delle Waffen-SS attaccarono il villaggio di Sant’Anna uccidendo 362 abitanti, senza alcuna distinzione di età né di sesso. I cadaveri, ammucchiati nella piazzetta antistante la chiesa, furono bruciati (il 16 ottobre 1971 il comune di Sant’Anna di Stazzema è stato insignito di medaglia d’oro al valor militare).]
Sant’Anna di Stazzema (Lucca) – n. 2163 – Schurfuekrez Wertmann, Feldmaresciall Jansen, Uberofficier Reeter [Reder?] delle SS ed altri; parte lesa: 400 civili di Sant’Anna; trasmissione alla Procura militare di La Spezia 6 novembre 1995.
[…] Nei casi sopra riportati i fascicoli occultati dalla Procura militare generale riportavano i nominativi dei presunti responsabili. Vi erano inoltre numerosi altri incarti su procedimenti per violenza con omicidio contro «ignoti militari tedeschi» e «ignoti militari fascisti». I vertici della magistratura militare si erano ben guardati dal disporre indagini sui responsabili di tali reati, mentre soltanto la raccolta tempestiva delle deposizioni di testimoni e di sopravvissuti avrebbe consentito la scoperta dei reparti d’appartenenza dei criminali e agevolato le ricerche. […]

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[…] Sant’Anna di Stazzema, un paesetto della montagna versiliese, fu il primo centro abitato annientato dalle truppe della divisione SS in Italia. Agli occhi delle truppe naziste Sant’Anna di Stazzema era un «Partisanendorf», un villaggio i cui abitanti erano da considerare partigiani o loro collaboratori e la cui distruzione era il vero obiettivo dell’azione del 12 agosto. Questo non fu un avvenimento casuale, ma una strage predeterminata. In considerazione delle loro dimensioni, intensità e sistematicità, non può esserci alcun dubbio sul fatto che, per quanto concerne il trattamento dei civili, le operazioni che portarono alla strage erano guidate da una chiara volontà di annientamento. […] In tempo di pace Sant’Anna di Stazzema contava poco piú di 300 abitanti distribuiti in alcuni gruppi di case sparsi ai piedi del Monte Lieto, lungo il crinale tra il Monte Ornato a ovest e il Monte Gabberi a est. Gli insediamenti principali erano Il Pero, nei pressi della chiesa, dove si trovavano anche la scuola e un negozio, Sennari e Case di Berna, situati piú a oriente, oltre un profondo e stretto avvallamento in cui scorreva un ruscello. Gli altri gruppi di case erano piú isolati e di dimensioni ancora piú modeste. Alcuni, come Vinci, Moco e Franchi erano costituiti da una o due case al massimo, gli altri, come Vaccareccia, Case, Colle e Coletti, da pochi edifici in piú. Un reticolo di strade, sentieri e mulattiere li univa l’uno all’altro e li collegava con i centri piú importanti verso valle, come Valdicastello e Pietrasanta, o con le zone piú alte della montagna circostante, con la vicina valle del Vezza e con la conca di Camaiore. I paesetti piú vicini erano Farnocchia e La Culla. Gli uomini erano quasi tutti contadini o minatori. Questi lavoravano nella miniera di barite, pirite e ossidi di ferro di Monte Arsiccio, che si trovava sul versante nordoccidentale del Monte Gabberi, a circa un chilometro in linea d’aria da Valdicastello. Nell’agosto del 1944 il numero dei civili presenti in zona si era accresciuto grazie all’arrivo di un numero imprecisato di sfollati venuti dalla regione costiera, che nei paesetti della montagna cercavano riparo dai bombardamenti aerei. Molti di essi si erano stabiliti anche nelle case di Sant’Anna, occupando ogni locale disponibile.

[…] I tedeschi tendevano a non fare distinzioni tra «banditi», ovvero partigiani, e comuni abitanti di un’area contrassegnata come «Bandengebiet» («zona di attività delle bande»): la riluttanza a distinguere tra i due gruppi era diventata parte integrante della mentalità delle truppe occupanti, e anche in questo caso giocò un ruolo decisivo. La Wehrmacht aveva già svolto il grosso del lavoro preparatorio, da ultimo con i rapporti delle perlustrazioni effettuate dal battaglione di addestramento della scuola alpina di Mittenwald, i cui esiti erano stati trasmessi alle truppe dal comando del LXXV corpo d’armata. Il rapporto si soffermava esplicitamente sulle esperienze fatte nelle Alpi Apuane, grazie alle quali era risultato possibile decifrare una serie di «segni di riconoscimento, codici di comunicazione, segnali di allarme e specchietti per le allodole» in vigore tra i partigiani. Tra questi c’erano: rintocchi di campane, richiami usati dai pastori per governare le bestie e donne recanti «segni distintivi che servono a farsi riconoscere dai compagni […], il piú delle volte un elemento di abbigliamento di colore rosso (foulard, fazzoletto, grembiule)». Quelle donne servivano da «staffette e sentinelle delle bande». Anche le SS della divisione «Reichsführer-SS» ragionavano in base a quegli stereotipi fuorvianti e a false immagini della realtà. Già durante i combattimenti di luglio il generale Simon non aveva esitato ad accusare la popolazione nella zona del fronte di riferire agli Alleati sulle pattuglie tedesche in ricognizione. Il 25 luglio Ekkehard Albert riportava che nelle retrovie «la popolazione collabora apertamente con i banditi e li avverte per tempo dell’arrivo dei soldati tedeschi». Alla fine del mese Simon ammetteva che i partigiani attivi nelle adiacenze di Sant’Anna di Stazzema avevano iniziato a creare «difficoltà» sempre piú gravi alle sue truppe che proprio in quell’area, a causa dei «numerosi banditi e civili», erano «costantemente» impegnate in attività di rastrellamento, rese piú complicate dalla fuga di alcune SS alsaziane, passate con i partigiani.

Anche il rapporto tra i partigiani e la popolazione civile della zona non era facile. Le formazioni partigiane che nel luglio e nei primi giorni di agosto del 1944 operavano nelle montagne sopra Sant’Anna di Stazzema costituivano la 10a bis brigata Garibaldi «Gino Lombardi», il cui comandante era Ottorino Balestri, detto “Libertas”. Il comunista Alvo Fontani, detto “Paolo”, il commissario politico, era stato membro di una cellula dei GAP a Firenze. La brigata, articolata in tre gruppi o compagnie, contava nell’insieme 300-350 uomini sparsi in gruppi tra i casolari della montagna. La loro presenza nei paesi della zona era quotidiana. La composizione della brigata era molto eterogenea. Si trattava di una formazione di tendenza comunista, ma ne facevano parte anche partigiani cattolici e liberali. Nelle sue file militavano inoltre anche disertori della Wehrmacht e delle Waffen-SS, tra i quali alcuni degli alsaziani che a fine luglio avevano abbandonato il battaglione di addestramento SS nei pressi di Seravezza. Alcuni di questi «tedeschi» si rivelarono poi in realtà informatori degli organi di sicurezza delle SS e parteciparono attivamente alle operazioni di rastrellamento. Particolarmente problematica, soprattutto per i rapporti con la popolazione civile, era la presenza di alcuni ex detenuti evasi dal carcere di Massa. Entrambi questi gruppi ebbero un ruolo negativo in relazione ai fatti di Sant’Anna: i disertori e le spie per aver denunciato gli abitanti che intrattenevano rapporti con i partigiani, gli evasi per aver a piú riprese afflitto la popolazione con le loro prepotenze. Dopo il massacro, secondo i testimoni, alcuni di essi arrivarono perfino a saccheggiare i cadaveri e le abitazioni delle vittime, completando il lavoro di distruzione iniziato dalle Waffen-SS.

I partigiani della brigata «Gino Lombardi» erano relativamente bene armati ed equipaggiati. A partire dalla metà di giugno la fornitura di armi era garantita da alcuni agenti dell’OSS, i servizi segreti americani. Tra la fine di luglio e i primi di agosto la brigata si era scontrata a piú riprese con le truppe di occupazione, che avevano subito alcune perdite.[…]

I primi scontri armati tra partigiani e tedeschi risalgono agli ultimi giorni di luglio. La diserzione di alcuni militi SS alsaziani fu all’origine di uno dei primi rastrellamenti nella zona del Monte Ornato, dove furono impegnati gli uomini della 4a compagnia del reparto esplorante di Walter Reder, le quali subirono anche alcune perdite. Ai primi di agosto, quando un soldato tenuto prigioniero dai partigiani nelle alture sopra Sant’Anna fece ritorno e forní ai tedeschi informazioni concrete, il battaglione ricevette l’ordine di organizzare un’«azione antibande». L’obiettivo esatto erano la zona intorno al Gabberi, che distava tre chilometri da Sant’Anna, e la località detta Farnocchia, che fu trovata abbandonata. I soldati diedero fuoco agli edifici. Sulle pendici del Monte Gabberi ci furono scontri. Alcuni partigiani rimasero sul terreno, mentre il battaglione Galler si ritirò con quattro feriti. L’operazione confermò i sospetti che in quelle zone ci fossero partigiani. Il ferimento dei compagni contribuí a esacerbare l’insofferenza della truppa. La divisione non aveva bisogno di pretesti piú gravi per dare inizio alla prima delle sue spedizioni punitive. Di lí a quattro giorni l’unità tornò all’attacco. L’obiettivo, questa volta, portava il nome di Sant’Anna di Stazzema.

L’operazione contro Sant’Anna deve essere stata pianificata con cura. Le truppe che nelle prime ore della mattina del 12 agosto presero di mira il villaggio provenivano da quattro diverse direzioni contemporaneamente. Il gruppo principale veniva da ovest, dalla parte della cittadina di Pietrasanta. Stando ai racconti dei testimoni, questo gruppo piú grande partí intorno alla mezzanotte dell’11 agosto e nelle prime ore del 12 agosto giunse in vista di Sant’Anna. Il suo compito era sferrare l’attacco principale.

Altre forze dovevano chiudere la sacca intorno a Sant’Anna, ma a oggi non è ancora possibile identificarle con esattezza. Tutti i testimoni ricordano che nel giorno del massacro a Sant’Anna e nei paraggi si vedevano uomini delle SS, ma alcuni elementi inducono a credere che anche la Wehrmacht abbia dato un contributo sostanziale all’operazione, quantomeno aiutando a chiudere la sacca intorno alla zona della strage. Con certezza possiamo affermare che un numero imprecisato di alpini del 3o battaglione Hochgebirgsjäger provenienti da Ruosina, nella contigua valle del Vezza, prese parte all’azione. Possibile è anche un coinvolgimento del battaglione di addestramento della scuola alpina di Mittenwald, alcuni reparti del quale stazionavano, come l’unità precedente, nella valle del Vezza. Secondo varie testimonianze nella notte tra l’11 e il 12 alcuni membri di questa unità partirono per Sant’Anna.

Il 31 luglio una pattuglia era caduta in un’imboscata proprio nei pressi di Sant’Anna. Sembra che alcuni giorni prima dell’operazione il comandante di compagnia dell’Hochgebirgsjäger-Bataillon di stanza a Ruosina abbia incontrato un ufficiale SS, un maggiore, molto probabilmente l’ufficiale Ic della 16a divisione, l’SS-Sturmbannführer Helmut Looß, incaricato da Simon di coordinare la lotta antipartigiana nell’entroterra. I Carabinieri sembravano convinti che in quell’occasione l’ufficiale avesse sollecitato l’intervento delle SS, ma è un’ipotesi poco plausibile, perché le operazioni condotte nella zona di Sant’Anna si rifacevano a piani del LXXV corpo d’armata.

Sappiamo invece con certezza che la colonna principale che nel corso della notte iniziò l’ascesa da Pietrasanta e raggiunse Sant’Anna intorno alle cinque del mattino era il battaglione Galler. Alla sua testa marciavano alcuni italiani che facevano da battistrada, mentre altri erano costretti a trasportare casse di munizioni. Una volta giunta a destinazione la colonna si divise in piccoli gruppi, ciascuno dei quali circondò una specifica località. Gli abitanti di Moriconi e Argentiera, due località lungo la via che conduceva a Sant’Anna, furono costretti a seguire le truppe. A Moriconi un uomo, Aleramo Garibaldi, fu caricato di munizioni: piú tardi i sopravvissuti di Sant’Anna lo avrebbero accusato di collusione con le SS. Probabilmente ci furono vittime già durante l’ascesa. È il caso di due uomini anziani incontrati lungo la via e subito uccisi. Secondo alcuni testimoni, nelle prime ore della mattina i tedeschi lanciarono dei bengala. Significava che tutte le truppe avevano raggiunto i posti assegnati. Soltanto allora il grosso degli abitanti si rese conto dell’imminente operazione militare. Alla notizia dell’avvicinarsi delle truppe molti degli uomini piú giovani si diedero immediatamente alla fuga, temendo che si trattasse di una delle azioni per la cattura di manodopera coatta di cui si parlava da qualche tempo nelle valli dell’Appennino, ed ebbero salva la vita. Nel villaggio restarono solo gli uomini piú anziani e soprattutto donne e bambini.

Dopo il lancio dei bengala i soldati con elmetti e uniformi mimetiche, in assetto di guerra, assalirono le abitazioni, sparando contro finestre e porte. Quel fuoco disordinato del quale parlano alcuni testimoni dovette a un certo punto sfuggire di mano e due SS, un ufficiale e un graduato dell’8a compagnia, rimasero feriti. I soldati trascinarono fuori gli abitanti e per prima cosa li raccolsero in luoghi chiusi in cui poterli tenere con facilità sotto controllo. È il caso della Vaccareccia, dove ebbe luogo la prima grande strage della giornata. Circa 100 uomini vennero tenuti prigionieri nelle stalle e sulle aie della borgata. Tra questi c’erano anche i civili delle frazioni di Argentiera e Moriconi. In una prima stalla furono rinchiuse circa 30 persone. In una seconda una dozzina. Due giovani, Agostino e Alfredo Bibolotti, furono costretti a seguire i soldati trasportando un apparecchio radiotrasmittente. I soldati gettarono bombe a mano nelle stalle dove erano rinchiusi i prigionieri e li finirono a colpi di arma da fuoco. Morirono cosí anche i famigliari di alcuni dei portatori, che in qualche caso dovettero assistere alla strage. Il fatto che alla Vaccareccia e piú tardi sul sagrato della chiesa sia stato visto un apparecchio radio induce a pensare che in quell’area, uno degli epicentri del massacro, fosse presente un ufficiale con funzioni di comando. Prima di proseguire oltre, i tedeschi provvidero a dare fuoco ai cadaveri nelle stalle.

A Franchi, una grossa casa, gli abitanti furono massacrati in circostanze molto simili a quelle già descritte per la Vaccareccia. Furono rinchiusi in una cucina e dilaniati con bombe a mano. Anche nella località detta Le Case, nelle immediate vicinanze di Franchi, numerosi civili vennero uccisi nelle abitazioni. Al Colle 19 persone furono invece scortate verso Valdicastello, ma dopo un breve tratto furono fatte fermare e portate in un avvallamento. Le SS si appostarono sui bordi e aprirono il fuoco con una mitragliatrice e con le pistole. Pochi istanti dopo i soldati scesero nell’avvallamento per «finire» i prigionieri, ma ci furono almeno due sopravvissuti, Ettore Salvatori e Maria Luisa Gherardini, che nel dopoguerra denunciarono due presunti collaboratori dei tedeschi: Giuseppe Ricci e Aleramo Garibaldi, accusati di aver aiutato le SS a raccogliere le vittime e a montare la mitragliatrice. In località Coletti, due edifici che sorgono poco sotto Sant’Anna, le SS radunarono 22 abitanti sull’aia di una stalla e li massacrarono con raffiche di mitragliatrice su ordine di un ufficiale. Si trattava quasi esclusivamente di donne e bambini. Le case vennero date alle fiamme e anche i cadaveri vennero arsi. A quanto emerge dalle testimonianze processuali, a compiere il massacro di Coletti furono uomini della 6a compagnia.

Il massacro con il maggior numero di vittime ebbe luogo sulla piazzetta antistante la chiesa, dove un gruppo di soldati giunse già nelle prime ore del mattino. I tedeschi iniziarono a trascinare fuori dalle case gli abitanti degli edifici che sorgono intorno alla piazza e dei borghi di Pero, Vinci e dei Merli, oltre ai molti profughi che avevano trovato una sistemazione provvisoria nella canonica e nella scuola del villaggio, e li radunarono di fronte alla chiesa. Piú tardi, nel corso di interrogatori, la situazione sulla piazza sarebbe stata descritta con dovizia di particolari soprattutto da uomini della 7a e 8a compagnia. Il principale testimone tedesco è Adolf Beckert dell’8a compagnia, che raccontò alla polizia di essere stato tra i primi soldati a raggiungere la piazza. Qui il comandante del plotone gli aveva dato l’ordine di perquisire «le due case di fronte o accanto alla chiesa» con l’aiuto di un commilitone. Si trattava della canonica e dell’unico negozio del villaggio. I due soldati avevano «l’ordine di cercare il prete», ma in un primo tempo non riuscirono a trovarlo. Adolf Beckert riferisce di aver visto i soldati di un’altra compagnia iniziare a spintonare i civili verso la piazza con i fucili spianati. «Erano solo donne, bambini e anziani». Si trattava, riferisce, di circa 200 persone e mentre perlustrava la zona si imbatté in «cinque o sei giovani uomini fucilati» dietro la chiesa. Si trattava verosimilmente di alcuni dei portatori.

A un certo punto, se vogliamo seguire la testimonianza di Beckert, fu ritrovato il parroco, e di lí a poco comparvero sulla piazza anche un apparecchio radiotrasmittente e un ufficiale accompagnato dal suo radioperatore. L’ufficiale era probabilmente il comandante del battaglione, giunto dalla direzione della Vaccareccia dove, come già sappiamo, erano state uccise circa 100 persone. Beckert ha sostenuto che l’ufficiale domandò a piú riprese al prete dove si nascondevano gli uomini, la cui fuga era interpretata come una prova di colpevolezza. Nel frattempo i soldati si tenevano in costante contatto radio con un non meglio precisato «comando superiore». Nella sua deposizione un altro membro dell’8a compagnia, Ignaz Lippert, sostenne di essere stato uno dei soldati che avevano fatto uscire i civili dalle loro abitazioni con la carabina spianata e li avevano scortati verso la piazza della chiesa. A suo giudizio l’atteggiamento passivo degli abitanti di Sant’Anna, nessuno dei quali oppose resistenza, si spiegava cosí: «Erano addirittura felici del nostro arrivo, perché sicuramente aspettavano il nostro aiuto contro i partigiani, che avevano portato loro via tutto. Uova, polli ecc.». Può darsi che in questo racconto ci sia un nocciolo di verità, ma anche in quel caso è comunque probabile che gli abitanti del posto abbiano cercato di prendere le distanze dai partigiani per conquistarsi la benevolenza delle SS. A quel punto Ignaz Lippert sostiene di aver ricevuto l’ordine di andare a prendere delle munizioni per la mitragliatrice e di consegnarle al suo comandante di squadra. È probabile che si sia trattato delle munizioni utilizzate per la strage sulla piazza.

Adolf Beckert sostiene inoltre di aver osservato che già durante il colloquio tra il prete e l’ufficiale SS «a destra e a sinistra della piazza […] erano montate due mitragliatrici collocate a una decina di metri dalle persone». Proprio allora il radioperatore aveva ricevuto un messaggio e prontamente informato l’ufficiale. Il prete venne nuovamente mandato a chiamare e invitato a rivelare il nascondiglio degli uomini. Il soldato sostiene di aver osservato che alcuni minuti piú tardi i civili si inginocchiavano e iniziavano a pregare. «A quel punto giunse l’ordine “fuoco a volontà!” e quelle persone vennero fucilate con raffiche di mitragliatrice. Era uno spettacolo atroce. Morivano senza un gemito, nessuno urlava o cose simili». Morirono in quella strage tra i 120 e i 140 abitanti. Il massacro richiese pochi minuti, al termine dei quali il mucchio di cadaveri fu cosparso di combustibile e dato alle fiamme. Per alimentare la pira i soldati accatastarono sopra i morti i mobili prelevati dalle abitazioni, i banchi della chiesa e bracciate di paglia.

Con la morte di quel gruppo di civili, che fino a questo momento nei ricordi dei sopravvissuti e dei perpetratori sembra avere obbedito a una logica militare rigorosa, la scena inizia a perdere coerenza. Ignaz Lippert, che sostiene di non aver assistito personalmente alla fucilazione, afferma di essere tornato in piazza mentre il rogo bruciava, di aver visto «mobili in fiamme» e di essersi detto «che là sotto, probabilmente, c’erano delle persone. Un po’ perché non si vedeva piú in giro nessuno, un po’ per l’odore. Nell’aria c’era un tanfo nauseabondo di carne bruciata, e il fuoco faceva moltissimo fumo, talmente denso che non si vedeva piú nulla». Intorno alla pira erano rimasti alcuni soldati, mentre altri avevano già cominciato a scendere nella valle.

Chi sono i responsabili del massacro nella piazza? Stabilirlo con certezza non è meno difficile che nel caso degli altri eccidi perpetrati il 12 agosto 1944 a Sant’Anna. Sul posto erano presenti uomini della 7a e dell’8a compagnia. Se i fatti si sono davvero svolti come dalla ricostruzione dei testimoni citati, sembra che il grosso delle operazioni condotte nella piazza sia riconducibile a uomini di queste compagnie, ma si tratta comunque di un’ipotesi. Non c’è modo di identificare con certezza l’ufficiale con l’apparecchio radio. Logica vuole che si trattasse del coordinatore dell’operazione, probabilmente il comandante di battaglione, Galler.

Un altro aspetto degno di nota è il comportamento contraddittorio dei tedeschi, molto difficile da decifrare a posteriori. Sappiamo per certo che i soldati non agirono dappertutto secondo lo stesso modello. Anzi, a volte il loro modus operandi appare cosí disomogeneo da rendere quasi impossibile spiegare in modo plausibile tutti gli eventi. In vari punti i soldati si limitarono a mandare i civili a Valdicastello, l’ultima tappa dell’«azione di ripulitura», dove era stato predisposto un punto di raccolta per i prigionieri. Le persone nelle quali i tedeschi si imbatterono a Colle, per esempio, furono messe in marcia verso quella destinazione, ma solo per venire massacrate alcuni istanti piú tardi dai soldati di un’altra compagnia. A quanto sembra i singoli soldati, a volte anche interi gruppi, potevano scegliere di tenersi alla larga dai massacri. Gli stessi soldati che raggiunsero Colle e piú tardi consegnarono gli abitanti ai loro carnefici erano passati in precedenza per la località Bambini e neppure lí avevano torto un capello ai civili. Secondo la testimonianza di Walter Blattmann, in questa zona operavano a contatto con le Waffen-SS le truppe alpine regolari. Questo potrebbe ben spiegare le diverse modalità di azione da parte dei soldati e il fatto che le borgate a est di Sant’Anna verso il Monte Gabberi sembrano essere state risparmiate dal massacro. In borgate importanti come Case di Berna e Sennari non ci furono stragi. A Sennari i soldati riunirono gli abitanti su un’aia e li tennero prigionieri per qualche tempo puntando le armi contro di loro. Poi ordinarono loro di mettersi in marcia per Valdicastello. Sopravvissero tutti e, nei ricordi di Enio Mancini, sono convinti di dovere la vita al giovane soldato che li accompagnava, e che sparò in aria invece che alle persone, ma il vero motivo era probabilmente la presenza sul posto di truppe di diverso tipo.

Una vicenda simile viene narrata anche a proposito della località detta Merli che fu raggiunta da un gruppetto di soldati in provenienza dalla piazza della chiesa. Gli abitanti furono dapprima radunati su un’aia, poi scortati verso Valdicastello. Il gruppo di civili era affidato a un solo uomo, un giovane soldato delle SS, che invece di ucciderli avrebbe intenzionalmente mirato piú in alto delle loro teste e dopo aver sparato li lasciò andare.

Alcune delle stragi furono compiute in grande fretta. E come spesso accade quando gruppi numerosi vengono fucilati con raffiche di mitragliatrice, non tutti furono uccisi subito. Karl-Heinz Bartlewski ha affermato che dopo le raffiche sparate ai civili in quella che con una certa sicurezza può essere ritenuta la strage dei civili del Colle, «alcuni [soldati] erano scesi nel fosso» per «controllare che fossero tutti morti. Per sicurezza hanno sparato qualche colpo. […] Chi non era ancora morto è stato finito con singoli colpi mirati». Nonostante ciò, Maria Luisa Gherardini ed Ettore Salvatori sarebbero sopravvissuti. Non solo tra gli abitanti del Colle ci furono dei superstiti, ma anche tra le vittime di altre stragi. Dalle stalle fumanti della Vaccareccia riemersero vive otto persone; alle Case si salvarono in nove, ai Franchi in tre e ai Coletti in cinque. Alcuni dei salvati, come Milena Bernabò ed Enrico Pieri erano ancora bambini o ragazzi.

Le condizioni dei cadaveri, molti dei quali semicarbonizzati, resero quasi impossibile identificare molte delle vittime. Al tempo stesso il tanfo della putrefazione, accelerata dalle temperature estive, costrinse i sopravvissuti a seppellire il prima possibile i corpi o i loro resti in fosse comuni, oppure a portare a termine la cremazione. Soltanto in pochi casi le vittime vennero inumate in tombe individuali. Inevitabilmente i superstiti pensavano soprattutto a chi era rimasto in vita: dei morti ci si occupò in modo sommario. Non di rado cadaveri e parti di cadaveri, rimasti insepolti, si decomposero tra le rovine. Quando a fine settembre del 1944 una commissione medica americana visitò il villaggio, i militari si imbatterono ancora in resti e ossa carbonizzate di donne e bambini tra le macerie delle case distrutte.

Non è piú possibile stabilire con esattezza il numero totale delle vittime. Da un lato non sappiamo quante persone si trovassero a Sant’Anna il 12 agosto; dall’altro la cremazione dei cadaveri e le condizioni precarie nelle quali fu data sepoltura ai resti delle vittime hanno reso impossibile identificare oltre ogni dubbio i caduti. Le stime oscillano tra 400 e 560 morti. Le ragioni di questo scarto sono analizzate da Paoletti, che in base ai propri calcoli parla di 389 vittime. Si tratta probabilmente dell’approssimazione piú verosimile.

Secondo i rapporti della Wehrmacht, nel corso dell’«operazione di rastrellamento antibande» di Sant’Anna erano stati «abbattuti 270 banditi». Anche a prescindere da questa affermazione, i documenti tedeschi sono oscuri. Si parla di undici depositi di munizioni fatti saltare, di una grande cucina da campo distrutta e del sequestro di parti di un deposito di vestiti. Le SS riferirono di avere dato alle fiamme una «base partigiana», nella quale non è difficile riconoscere Sant’Anna. Questi elementi della relazione hanno lo scopo di camuffare il massacro da operazione militare, e quindi di legittimarlo. Risulta difficile credere che i partigiani attivi nei dintorni di Sant’Anna prima dell’eccidio, che pure sappiamo essere stati bene armati, potessero disporre di qualcosa come undici depositi di munizioni. Dietro a quel numero sembra piuttosto di riconoscere le diverse località in cui era suddivisa Sant’Anna di Stazzema distrutte nel corso dell’operazione. Nessuno può escludere che negli edifici siano state rinvenute piccole quantità di munizioni lasciate sul posto dai partigiani. O forse si trattava di munizioni e fucili da caccia. La «grande cucina da campo», ammesso che si riferisca a un edificio del villaggio, poteva essere stato un refettorio al servizio dei molti profughi che avevano trovato rifugio a Sant’Anna, e lo stesso può valere per il «deposito di vestiti»; fuori dal villaggio, forse una struttura utilizzata dai partigiani.

I soldati si ritirarono a gruppi da Sant’Anna già prima del mezzogiorno, portando via un ricco bottino. La discesa delle truppe fu disordinata. Alla tensione dell’azione era subentrato un umore diverso: mentre alcuni degli uomini sembravano duramente provati e avviliti, altri, i piú, davano l’impressione di andare «orgogliosi» della loro impresa. «Ridevano e scherzavano» sull’accaduto, ricorda il testimone Ignaz Lippert. Sembra che si trattasse per lo piú di volontari, «SS fino al midollo […] gente che non si stancava mai di ammazzare per il gusto di farlo».[…]

Nota del Blog
Gli stralci del libro di Franzinelli riportano queste note a chiusura del testo:
– Paolo Paoletti, Sant’Anna di Stazzema, Milano, Mursia, 1988, con la trascrizione – alle pp. 34-54 – di alcune testimonianze sulle fasi della strage.
– Relazione del tenente Antonio Tucci al ministero della Marina, Napoli, 24 ottobre 1944 (Archivio Centrale dello Stato (ACS), Presidenza del Consiglio dei Ministri (PCM )1944-47, b. 3553).
– Sulle indagini attorno alla strage di Sant’Anna di Stazzema si veda la corrispondenza intercorsa nel 1947 tra presidenza del Consiglio, ministero di Grazia e giustizia, Procura generale militare e Deputy Judge Advocate General conservata in ACS, PCM 1944-47, b. 3558, f. «Atrocità di guerra».