Ipocrisie e nefandezze del colonialismo verde – Prima Parte

Negli ultimi anni, la transizione ecologica, le energie rinnovabili e l’economia circolare sono diventati i cavalli di battaglia delle multinazionali ed entità nazionali e sovra-nazionali del Nord Globale. Se, però, ci spostiamo qualche latitudine più sotto, precisamente nel Sud Globale, vediamo montagne di rifiuti, deforestazione e colonne di fumo nero provenienti dalle industrie di proprietà (o strettamente collegate) a quelle multinazionali paladine della salvaguardia dell’ambiente e provenienti dalla parte settentrionale del globo.

Questa discrepanza tra le due macro-aree, dove una prospera e l’altra subisce, è un chiaro fenomeno di colonizzazione “verde” – dove il capitalismo cerca di diversificarsi, distruggendo ulteriormente il pianeta. L’articolo che presentiamo cerca di analizzare, con note ed esempi, l’attacco in formato “ecologico” del capitale e dei suoi alleati burocratici-politici; si vogliono rendere palesi o denudare, quindi, le ipocrisie, gli atti coloniali e di sfruttamento e le ineguaglianze di un sistema altamente mortifero e pestilenziale.

Colonialismo verde

Il ricercatore-attivista algerino Hamza Hamouchene, nel suo saggio “The Energy Transition in NorthAfrica: Neocolonialism Again!1, dà questa definizione di colonialismo verde:

Il colonialismo verde, o “colonialismo delle energie rinnovabili”, può essere definito come l’estensione delle relazioni coloniali di saccheggio e di espropriazione (nonché di disumanizzazione dell’altro) nell’era verde delle energie rinnovabili. [Ciò porta al] conseguente spostamento dei costi socio-ambientali sui Paesi e sulle comunità periferiche – a vantaggio, quindi, dei bisogni energetici di una regione del mondo rispetto ad un’altra. In sostanza, lo stesso sistema è operativo ma con una fonte diversa di energia (che passa dai combustibili fossili all’energia verde), mantenendo però gli stessi modelli globali di produzione e consumo ad alta intensità energetica – oltre a lasciare intatte le stesse strutture politiche, economiche e sociali che generano disuguaglianza, impoverimento ed espropriazione.”2

In sostanza, il colonialismo verde si basa sulle tecnologie ecologiche dello Stato e delle imprese – le quali affermano come il loro aiuto sia fondamentale nella cura dell’ambiente e nella creazione di supposti e ipotetici posti di lavoro (ma destinati ad una specifica parte specializzata della popolazione lavoratrice).

La logica coloniale e capitalistica adottata oggi giorno affonda le sue radici tra il Sette e l’Ottocento: le compagnie commerciali europee agivano per conto delle monarchie ed esportavano spezie e minerali di vario valore e schiavi dalle colonie. Ciò consentiva agli imperi di accumulare abbastanza capitale per controllare i territori e il lavoro altrui senza dover usare, in modo ingente e dispendioso, la forza militare.

Queste conquiste coloniali sono direttamente collegate alla diffusione mondiale del capitalismo e agli intenti, per citare Hamouchene, di rapina. Se un tempo i colonialisti agivano con il supporto degli imperi, oggi vi sono le corporazioni internazionali e i funzionari politico-burocratici. Orgogliosi degli elevati standard ambientali dei loro Paesi, questi personaggi invocano sostenibilità e rispetto di determinati territori, infischiandosene e violando, allo stesso tempo e con gli scarti ed emissioni delle aziende ad essi collegati, i diritti internazionali riconosciuti 3 di una o più comunità umane residenti in quelle zone.

Zero emissioni ma solo in casa propria

L’Unione Europea (UE), da diversi anni, è diventata una sorta di paladina internazionale nella difesa dell’ambiente. Forte del risultato ottenuto riguardo la riduzione delle emissioni (-24% nel 2019 4), l’UE sta spingendo sempre più per raggiungere la quota “zero emissioni” entro il 2050.

Uscendo dalle fanfare istituzionali-capitalistiche europee, molte industrie e miniere inquinanti, gestite da multinazionali e corporazioni dell’Unione Europea, sono, come accennato nel paragrafo precedente, nelle regioni più povere e / o facilmente sfruttabili del pianeta.

La Francia, ad esempio, a fine del 2017 aveva varato la “Legge n. 2017-1839 del 30 dicembre 2017 che pone fine alla ricerca e allo sfruttamento degli idrocarburi e contiene varie disposizioni in materia di energia e ambiente”. 5 La legge è stata ben accolta dai diversi settori sociali ed economici del paese transalpino – in quanto risolveva i cronici problemi dell’inquinamento e spingeva per la salvaguardia climatica. Queste aree socio-culturali ed economiche, però, dimenticavano, volutamente o meno, che molte macchine industriali militari e civili presenti nel territorio francese usassero l’energia fossile. Il reperimento di questi materiali energetici, quindi, era (e lo è ancor oggi) di vitale importanza. Qua entra in scena l’altra faccia della medaglia: aziende come la francese Total – la quale estrae gas in Mozambico 6 e sta costruendo un oleodotto tra Tanzania e Uganda (noto come “East African Crude Oil Pipeline”7) -, dimostrano che le emissioni nocive verso l’atmosfera e l’acqua dolce – e a cui si aggiungono gli espropri delle terre avvenute in Uganda 8 -, ricadano principalmente sui territori sfruttati e non su quelli degli sfruttatori. E soprattutto non vengono contabilizzati dagli eco-indicatori nazionali (francesi, in questo caso).

Ciò porta i paesi colonizzatori ad applicare una “scappatoia del carbonio”. Nel caso dell’Unione Europea (e al cui interno vi è anche la Francia), vi è un documento del “ClimateWorks Foundation” del 2017 riguardante questa fenomeno:

L’Unione Europea (UE) è ampiamente accreditata per la riduzione delle emissioni di gas serra (Greenhouse gases, GHGs) ed è sulla buona strada per raggiungere l’obiettivo di diminuzione del 20% dei GHGs nel 2020 – rispetto ai livelli del 1990. Ma da una contabilità completa del ciclo di vita delle emissioni di carbonio degli Stati membri europei, comprese quelle causate dal consumo di beni importati, viene fuori una storia diversa: in base a questo metodo di contabilizzazione, le emissioni dell’UE sono cresciute dell’11% – con alcuni Paesi che hanno registrato una crescita delle emissioni sostanzialmente maggiore rispetto ad altri. Queste nazioni stanno approfittando della “scappatoia del carbonio”, un artefatto della politica climatica che non considera le importazioni di una nazione nel calcolo delle emissioni nazionali e degli impegni climatici associati. Le ricerche dimostrano che ben il 22% delle emissioni globali di gas serra passa attraverso questa scappatoia – le quali provengono da regioni con una regolamentazione scarsa o nulla sulle emissioni di carbonio e finendo, successivamente, in nazioni con un mercato del carbonio sempre più regolamentato. Fino a quando la scappatoia del carbonio non verrà chiusa, il mondo dovrà lottare per raggiungere gli obiettivi di emissioni globali ed evitare pericolosi cambiamenti climatici. […]9

Allargando il raggio di analisi a livello mondiale, vediamo come il Nord Globale applichi in toto questa strategia di inquinamento e colonizzazione. In un documento del 2022 pubblicato dal “Climate Leadership Council” viene scritto: “La “scappatoia del carbonio” rappresenta le emissioni di CO2 associate alla produzione di beni e servizi in un Paese che vengono, successivamente, consumati in un altro. Ad esempio, le emissioni sprigionate dall’acciaio prodotto in Cina formerà il telaio di un’automobile pronto ad uscire da una catena di montaggio in Germania. Oppure le emissioni prodotte dalla lavorazione dell’alluminio all’estero – trasformato in una lattina di soda e utilizzata negli Stati Uniti. Negli ultimi 25 anni, i mercati in via di sviluppo hanno assunto un ruolo sempre più importante come produttori, fornendo beni e servizi da consumare in patria e all’estero. Nel frattempo, le economie avanzate si sono spostate verso quei settori basati sui servizi, soddisfacendo, grazie alle importazioni dall’estero, l’ampia e crescente domanda di consumo. Con questo spostamento della produzione e delle emissioni dal Nord al Sud del mondo, le emissioni globali di carbonio sono aumentate di circa il 60%. Le emissioni dovute alla scappatoia del carbonio sono raddoppiate, raggiungendo quasi 8 gigatoni di CO2 (GtCO2) all’anno. […] La contabilità climatica convenzionale ci dice che i Paesi sono responsabili delle emissioni prodotte all’interno dei loro confini. Mentre i Paesi ambiziosi in materia climatica adottano degli obiettivi di de-carbonizzazione profonda entro la metà di questo secolo, c’è il rischio che le riduzioni delle emissioni prodotte per raggiungere tali traguardi compenseranno o aumenteranno la scappatoia del carbonio – soprattutto se tali emissioni verranno semplicemente trasferite all’estero. Se tenessimo conto, in modo appropriato, delle emissioni rilasciate dal commercio internazionale, molte tendenze climatiche promettenti verrebbero moderate o addirittura invertite. Le economie del G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti), insieme all’Unione Europea, sono tra le più ambiziose al mondo in materia di clima. Essi rappresentano più della metà dell’economia globale; sono anche degli attori potenti sulla scena internazionale e stabiliscono le condizioni di mercato – i quali limitano o favoriscono gli sforzi della de-carbonizzazione. In media, i membri del G7 importano il 14% di emissioni in più rispetto a quelle prodotte a livello nazionale. Per alcuni paesi, le loro importazioni nette rappresentano porzioni enormi di consumo interno – in particolare quei paesi leader del clima riconosciuti come Francia, Italia e Regno Unito. Inoltre, mentre i Paesi del G7 possono registrare un taglio collettivo delle emissioni di CO2 basate sulla produzione (a partire dal 1995), l’aggiunta delle emissioni basate sul consumo aumenta le loro emissioni collettive di CO2 nello stesso periodo.10

Continua nella Seconda Parte

 

Note

1Inserito nel libro “Dismantling green colonialis. Energy and climate justice in the Arab Region”, Pluto Press, 2023, Londra-Las Vegas.

2Ibidem, pag. 31

3Ci si riferisce alla Convenzione n. 169 dell’Organizzazione internazionale per il lavoro (ILO) sui diritti dei popoli indigeni e tribali. Ratificata nel 1989, questa Convenzione si prefigge di promuovere e proteggere le popolazioni native o originarie e incentivare la collaborazione tra quest’ultime e i governi nazionali. Link: https://assets.survivalinternational.org/documents/700/testo-convenzione-ilo169-survival.pdf Da quando è stata ratificata questa Convenzione, vi sono state varie violazioni da parte dei governi e delle multinazionali – specie per quanto riguarda l’articolo 15 (risorse naturali). Le popolazioni native, per difendere i loro stili di vita e sociali, hanno protestato sempre più veemente contro questi atti colonizzatori. Per una panoramica sulla questione delle proteste e violazioni della Convezione vedere: Christian Courtis, “Apuntes sobre la aplicaciòn del Convenio 169 de la OIT sobre pueblos indìgenas por los tribunales de America Latina”. Link: https://www.corteidh.or.cr/tablas/r23739.pdf ; i vari articoli pubblicati periodicamente sul notiziario “mapuexpress”, sito che riporta le violenze istituzionali-capitalistiche contro le popolazioni native della cosiddetta America Latina. Link: http://web.archive.org/web/20231001221147/https://www.mapuexpress.org/tag/convenio_169/

6Per un approfondimento della questione si rimanda alla seguente analisi: “Mozambique: LNG. A mega-carbon bomb in Mozambique”. Link: https://defundtotalenergies.org/en/mozambiquelng

8“ “Our Trust is Broken”Loss of Land and Livelihoods for Oil Development in Uganda”, Human Rights Watch, 10 Luglio 2023. Link: https://www.hrw.org/report/2023/07/10/our-trust-broken/loss-land-and-livelihoods-oil-development-uganda

10Rorke Catrina, Bertelsen Greg, “Key findings. Embodied carbon in trade: Carbon loophole”, Novembre 2022, pag. 3 e 6. Link: https://clcouncil.org/reports/Embodied-Carbon-in-Trade_Findings_v5.pdf