L’Adunata dei refrattari, n. 52, Volume XXII, 25 Dicembre 1943. pagg. 3-4
Firma: Dando Dandi (pseudonimo di Candido Mollar)
Da oltre un mese si nota un movimento insolito nella folla metropolitana che procede fitta sui larghi marciapiedi, varca la soglia dei negozi e si assiepa rumorosa contro i banchi di vendita, dietro cui i commessi di ambo i sessi si affaticano per servire la clientela fastidiosa e frettolosa. Nelle città di provincia, nei piccoli centri rurali avviene la medesima cosa. I negozi sono imbandierati da cartelli variopinti, da festoni di carta svolazzanti e persino le vie spaziose dei centri commerciali hanno i lampioni decorati da enormi corone intrecciate con dei ramoscelli di pino, di arbor vitac e altri sempreverdi, la cui apparente freschezza contrasta violentemente col freddo e col riflesso biancastro della neve scricchiolante sotto i piedi. I battenti monumentali dei grandi magazzini rimangono aperti fino a tarda ora, specialmente il sabato sera, la giornata classica che precede il riposo domenicale e che imprime una ruga gioviale sulle guance stanche dei lavoratori. La moltitudine compratrice è composta in maggioranza di donne, le quali, armate di una lunga lista di nomi – ad ognuno dei quali è destinato un regalo, il cui valore dipende dal grado di amicizia – procedono risolute nella selezione e nella compera degli oggetti desiderati.
Ogni tanto una di esse consulta la lista chilometrica, scuote la testa e ricomincia l’esplorazione sulla pianura luccicante dei banchi carichi di manufatti di ogni forma, di ogni colore e di ogni descrizione. Sopra il vociare confuso del pubblico compratore si ode distinto il tintinnare metallico delle cassette di tesoreria che registrano implacabili l’ammontare pecuniario di ogni vendita – un suono oltremodo gradito all’orecchio mercenario dei proprietari adusati all’addizione delle cifre astronomiche.
Alla fine, terminate le compere del giorno, le donne del popolo cariche di pacchi grandi e piccoli, a forza di urti e spintoni sboccano nella strada e danno l’assalto ai mezzi di trasporto gremiti di umanità ingombra di involti rettangolari e voluminosi; mentre il problema fisico di star in piedi sul veicolo traballante e mantenere compatta la bracciata dei colli pesanti richiede tutta l’energia muscolare del proprio corpo, la mente passa in rapida rassegna la gamma complicata delle proprie amicizie. Oh! I bimbi, il marito, lo zio, il nonno sono facili da accontentare: un po’ di dolci, una cravatta, una pipa, quattro sigari, ma vi sono le amiche da soddisfare, le comari schifiltose e chiacchierone pronte a far guizzare lo scilinguagnolo se il regalo non è di loro gradimento. Per due mesi questo costume sciocco dei regali natalizi mantiene le donne in istato di grande nervosismo: naturalmente l’ultimo giudizio in proposito è, in fin dei conti, determinato dal valore e dal gradimento del regalo ricevuto l’anno prima, il quale è, in generale, un ninnolo qualunque o un articolo di minimo valore. Questi regali scatenano pettegolezzi nel vicinato, creano equivoci, raffreddano conoscenze e infrangono amicizie.
A chi obbietta che tale scambio è volontario e basato sulla gradevole reciprocità dell’amicizia, rispondo che è invece forzato perché determinato da costumi antichi, da tradizioni ammuffite che diventano noiose, uggiose, odiose perché degenerate in meschinità che, sotto il nobile usbergo dell’amicizia, degradano l’individuo. La vita è tragica assai e io sono l’ultimo uomo della terra a voler privare la gente dell’innocente soddisfazione di scambiarsi dei complimenti o degli oggetti, ma dopo aver udito i commenti privati di molti… pretesi beneficati, compresi che tale costume invece di creare felicità – come si vorrebbe far credere – provoca astio e rancori. Ciò prova che l’umanità, afferrata nella morsa atavica di costumi secolari odiosi e deleteri, non fa sforzi soverchi per liberarsene perché pretende di amarli, specialmente quando essi sono connessi colle tradizioni religiose. Chi ne profitta, naturalmente, sono i commercianti, i quali insaccano milioni di dollari sula dabbenaggine popolare. L’effetto delle feste natalizie sugli individui della nostra società è strano assai; dico strano perché tale reazione psicologica subisce differenze di gradazioni nei membri delle varie classi sociali; il popolano è suscettibile a questa data memorabile della cristianità e fa del suo meglio per passare buone feste natalizie nel circolo della famiglia e degli amici, prende magari la sua brava sbornia e il giorno dopo ritorna al lavoro contento che le feste siano passate e dimenticate, appena scomparso il mal di testa.
Il povero non ha scrupoli di coscienza provocati dalla nascita del Cristo perché col Cristo divide il Calvario di dolori e di sofferenze; al ricco invece, la grande festa cristiana ricorda gli sfruttamenti esosi e brutali del popolo e il bisogno di apparire generoso e munifico una volta all’anno verso le sue vittime più pietose. È vero che organizzazioni religiose di carità esortato i ricchi a contribuire affinché gli infimi indigenti mangino il pane amaro della carità il 25 Dicembre, ma non va dimenticato che la Chiesta è il puntello spirituale del capitalismo e di conseguenza essa rappresenta l’unica parvenza di morale e di coscienza sociale – se ciò è possibile – delle classi sfruttatrici.
Duemila anni di cristianesimo ribadirono nella mente degli individui di tutte le classi la medesima caratteristica: ricordare con un pensiero una cartolina, amici e conoscenti per dimenticarli il resto dell’anno; alzarsi di buon umore il mattino del 25 Dicembre disposto alla cordialità, alla cortesia, alla bontà, alle calorose strette di mano coi più acerrimi nemici… per riprendere, con rinnovata energia, odii e insulti il giorno dopo. Questo dimostra quanto superficiale sia la morale cristiana; una morale che collauda, anzi santifica lo sfruttamento dei propri simili l’anno intero meno un giorno – il 25 Dicembre – in cui gli sfruttatori delle plebi, mentre lanciano sul marciapiede le briciole insultanti, si compiacciono profondamente di una religione che in nome dell’umile Cristo permette loro di sfruttare e di schiavizzare i popoli della terra.
Il Cristo inchiodato sulla croce è certamente il simbolo perfetto della rassegnazione cristiana. Un uomo nudo disteso sul legno rustico della croce con un chiodo che gli buca ogni palma e un altro più lungo conficcato nei due piedi uno sovrapposto all’altro è, non si può negare, uno spettacolo tragico e pietoso; un essere umano magro colle costole sporgenti, la ferita sanguinante al costato, la corona di spine sulla fronte dolorante, la testa reclinante sul petto, la barba rada, le guance smunte, la gola rantolante e l’occhio semispento dal delirio dell’agonia. Tale il simbolo del cristianesimo che dai monumenti, dai quadri di musi, dagli altari di chiese, cattedrali, battisteri, basiliche di lusso e rustiche cappelle, da milioni di crocefissi lancia da molti secoli l’accusa atroce all’umanità confusa e penitente: “io sono morto per voi”.
Una religione umana potrebbe far supporre che duemila anni di vendetta dovrebbero rallentare un tanto il feroce anatema di un Dio che fece assassinare il figlio unico per redimere l’umanità; invece dopo quattrocento lustri di sadica redenzione, la vendetta divina continua più implacabile che mai.
È indiscutibile che la crocefissione era una punizione crudele e comune ai tempi in cui Gesù visse, uomo o mito; ma tale genere di supplizio fu subito da milioni di individui e le sofferenze di Cristo non furono peggiori degli altri disgraziati che perirono in questa barbara maniera. D’altronde la storia – o la leggenda – ricorda un Barabba suppliziato accanto al Cristo come un delinquente comune; un ladro, un vagabondo, un ubriacone, in altre parole un disoccupato che la miseria spinse contro i reticolati della legge, una vittima sociale caduta agli avamposti dell’ingiustizia come le vittime sociali dei nostri tempi, di tutti i tempi. Ma Barabba non ha come genitore un padreterno che lo fa resuscitare per usarlo come vendetta millenaria di una misteriosa e sanguinaria trinità e non ha preti golosi e feroci che lo rivendichino nei secoli come capostipite di una chiesa astuta e grifagna.
Perciò Barabba è simpatico; simpatico perché ci è familiare nella sventura come le vittime di oggi, i nostri vicini, conoscenti e amici – figli del popolo come lui – che scompaiono oscuramente ogni giorno nell’agonia silenziosa della croce propinata dal capitalismo universale. Ci fu mai un psicologo che abbia tentato di analizzare quale sia l’effetto del crocifisso, sanguinoso e cadaverico sulle generazioni umane per duemila anni? Il continuo spettacolo macabro non ingentilisce gli animi nemmeno in nome della religione, ma questo storico-psicologo scatenerebbe l’ira degli ecclesiasti come lo scrittore blasfemo e sacrilego per eccellenza, perché ricercatore ardito della verità e della giustizia. L’esempio l’abbiamo ora colla presente orgia di sangue sui fronti della carneficina globale. In questo Natale sanguigno le folle dei fedeli si recano nelle chiese a pregare per la vittoria delle armi nazionali; sotto le grandi navate delle cattedrali, tetre e massicce come reclusori, la melodia religiosa dell’organo rimbomba solenne frammista alla menzogna del prete e alle cerimonie complicate e fraudolenti del rito secolare delle varie sette; la medesima cosa avviene nelle chiese di tutte le nazioni della terra e i soldati cadono colpiti dalle armi benedette dal medesimo dio traditore e spergiuro.
Finito lo spettacolo religioso le preci svaniscono sulle labbra aride e le bocche si chiudono ermetiche in una piega amara di disgusto e di dolorosa rassegnazione. L’umanità non può far a meno di pensare che venti secoli di vangeli, di bibbie e di innumerevoli santi cristiani pervertirono gli animi al punto da renderli proni alla rissa omicida quotidiana; i nobili precetti di fratellanza universale vengono soffocati nei rantoli collettivi delle trincee planetarie e la collina nera e brulla del funereo Golgota risalta ora più che mai come la suprema ipocrisia della storia umana. L’umanità si trova ora all’ultimo scorcio del suo bivio sanguinolento: rinnovarsi o perire.
Il cristianesimo distrusse le bellezze del paganesimo, eliminò la glorificazione dell’estetica e della natura per sospingere i popoli nella rinuncia e nell’oscurità; il sublime spirito dell’antica filosofia ellenica, l’arte somma e il lirismo magniloquente greco-romano furono soffocati nelle spire micidiali della trascuratezza personale, della negligenza sociale, del masochismo collettivo del nuovo verbo cristiano. I valorosi pensatori attici furono soppiantati dagli anacoreti affamati e sudici e il cristianesimo piombò il mondo civile nel saccheggio e nella rapina di quel vuoto orribile di oltre dieci secoli conosciuto col nome classico di Età Media.
L’umanità non vuole perire e non può tornare indietro. Valga l’esempio attuale di un gruppo di mentecatti, i quali – appoggiato da eserciti numerosi – vorrebbero risalire al paganesimo delle foreste nordiche con i suoi Thor e i suoi Wotan, primitivi e bestiali quanto i loro feroci esumatori. Malgrado i flussi e riflussi, la storia procede inesorabile nel suo progresso in avanti; a volte questi riflessi assumono proporzioni disastrose per i contemporanei travolti dai marosi giganteschi, ma osservati a debita distanza essi appaiono semplicemente per quello che veramente sono: delle crisi sanguinose, delle tappe laboriose nella marcia dell’umanità stanca, eppur ansiosa di proseguire verso l’orizzonte irraggiungibile, verso sempre un miglior avvenire.
Giambattista Vico ammonisce che i ricorsi storici sono inevitabili, non solo per l’umanità è composta da progressisti e di reazionari in continua lotta, ma anche perché noi siamo il prodotto storico dei nostri antenati e interpretiamo la storia come loro diretti discendenti. L’umanità non può tornare al paganesimo ora che il cristianesimo sta volgendo all’oceano. Nuove forme sociali di vita si impongono e le speranze dell’umanità risiedono nei più fulgidi postulati del socialismo, nelle idee anarchiche che da oltre un secolo apparvero nel pensiero umano. E mi auguro dal più profondo del cuore che non sia lontano il giorno i cui il Natale del Cristo, il Calvario, il Golgota, i presepi e i crocefissi di tutte le dimensioni non siano che ricordi vaghi, indistinti e poco graditi per l’umanità felice e tranquilla.