Il periodo dal 1908 al 1920 invece fu contrassegnato dalle prime fattorie a coltivazione mista (grano, ortaggi, etc). Fu questa l’epoca nella quale vennero fondate le colonie di Kineret, Daganiah, Beuslemen ed altre.1
Il 1921 fu un anno importante nella colonizzazione sionista, perché i mezzi a disposizione aumentarono e le varie aree colonizzate vennero collegate tra loro con nuovi acquisti di terre.2 Intanto, nel 1909, alcuni ebrei residenti a Giaffa avevano fondato Tel Aviv, il primo centro urbano completamente ebraico della Palestina. E nel 1920 era stata fondata la Histadruth, principalmente ad opera di David Ben Gurion.3
Questa organizzazione era di tipo sindacale e mirava a raccogliere tutti i lavoratori ebrei di Palestina, non solo per assisterli, ma per organizzarli, per guidare il loro lavoro di coloni, per formare in loro una coscienza sionista ed approdare finalmente alla fondazione dello Stato ebraico. Era quindi più di un sindacato e continuerà ad esserlo in misura sempre maggiore fino a che arriverà a possedere fattorie agricole, aziende di trasporti e di commercio e fabbriche, e quindi a costituire un organismo economico di tipo corporativo.
Gli organismi sionisti preposti alla colonizzazione della Palestina erano tre:
1) il Keren Kayemeth Le Israel, Fondo Nazionale Ebraico, che s’interessa dell’acquisto delle terre. Questo organismo, fondato nel 1901, è sottoposto all’Esecutivo Sionista;
2) il Keren Hayesod, Fondo di Ricostruzione, è un istituto finanziato dall’Agenzia Ebraica di Palestina; s’interessava dell’irrigazione della terra, della fornitura di macchinari agricoli e della edificazione delle case coloniche.
3) la Palestine Development Company Ltd., preposta esclusivamente all’acquisto delle terre e allo sviluppo agricolo delle terre acquistate.
Queste istituzioni dell’organizzazione sionista accordavano prestiti e mutui ventennali ai coloni ebrei e li assistevano con aiuti 4 e consigli tecnici.5
L’organizzazione delle colonie agricole ebraiche in Palestina era di quattro tipi diversi:
1) il kibbutz 6, la fattoria agricola collettiva la cui organizzazione è di tipo comunistico. Vige il principio della proprietà comune dei mezzi di produzione, dei beni prodotti, il commercio stesso è socializzato. A volte il denaro è usato solo per rapporti con l’esterno 7;
2) il moshav ovdim 8, è il tipo di cooperativa dei piccoli proprietari terrieri che si uniscono in una colonia agricola per trarre reciproci vantaggi dalla cooperazione nel lavoro agricolo. I mezzi di produzione sono di proprietà individuale;
3) i moshav shitufi 9, cooperativa agricola in cui resta la figura del proprietario nella persona del membro della cooperativa; i mezzi di produzione sono di proprietà della collettività, il lavoro viene programmato ed eseguito collettivamente, mentre la ripartizione degli utili avviene secondo la quota dei membri ed il lavoro da essi effettuato;
4) moshav olim, cooperative introdotte nel 1948 dopo la costituzione dello Stato, accolgono grandi masse di immigrati 10;
5) Khar shitufi, forma cooperativistica, villaggio-cooperativa, istituita intorno al 1938 per i profughi dell’Europa nazifascista 11;
6) la colonizzazione privata del fondo, che presuppone evidentemente una certa disponibilità di mezzi da parte del proprietario colono.
Fondamentali per l’azione sionista in Palestina, per l’organizzazione del focolare nazionale ebraico furono i finanziamenti che affluivano in Palestina dagli Ebrei di tutte le parti del mondo. E teniamo a sottolineare che non si trattava di un’operazione meramente missionaria da parte della comunità ebraica mondiale, ma, in buona parte dei casi, di veri e propri investimenti di capitale di grosse società ebraiche e di speculazioni economiche, sia pure a lunga scadenza, di grandi capitalisti ebrei. Infatti l’opera, all’inizio esclusivamente filantropica, di Rotschild e di Hirsch e di altri cambiò ben presto natura. Con gli avvenimenti intercorsi tra la pubblicazione del libro di Herzl e il mandato britannico in Palestina, la situazione mondiale e quella della Palestina erano completamente mutate. La Palestina sotto amministrazione inglese era ormai un paese nel quale si poteva con tutta tranquillità investire capitale senza grossi rischi e soprattutto senza sorprese di alcun genere.
La filantropia degli Hirsch e dei Rothschild, cambiato il contesto della situazione, tendeva a diventare una vantaggiosa ed organica operazione economica. Viene calcolato così che tra il Primo Ottobre 1917 e il 31 Marzo del 1926 i contributi ebraici da tutto il mondo furono di Lst. 4286000.
Nello stesso periodo fu speso dalla Jewish Colonization Association (Hirsch) e dalla Palestine Jewish Colonization Association (Rothschild) un capitale di Lst. 1500000. Sempre nello stesso periodo quasi Lst 4 milioni di capitale ebraico venne portato in Palestina da organismi pubblici sionisti, da compagnie private e da singoli privati ebrei. Sommando queste cifre abbiamo un totale complessivo di Lst. 10 milioni di capitale ebraico investito in Palestina negli suindicati.12
Dopo il Congresso Sionista tenuto a Vienna nel 1924 la Jewish Agency, organo coadiutore dell’Amministrazione mandatoriale inglese, fu ristrutturata per decisione congressuale. La metà dei seggi della Jewish Agency fu attribuita ai sionisti e l’altra metà ai rappresentanti delle comunità e organizzazioni ebraiche non sioniste di tutto il mondo. Questo “allargamento” veniva effettuato per incoraggiare e stimolare gli investimenti ebraici (sionisti e non) in Palestina.13
La questione fu sottoposta al Governo inglese e definitivamente approvata nel 1927. I sionisti riuscirono a stabilire un proprio ufficio presso la Società delle Nazioni. Infatti nel 1925 fu istituita l’Agenzia permanente dell’Organizzazione Sionista presso la Società delle Nazioni a Ginevra. Questa Agenzia era ufficialmente rappresentata nelle diverse sezioni del Segretariato della Società delle Nazioni e anche presso il Bureau International du Travail per tutto quanto concerneva il focolare nazionale ebraico in Palestina e l’attività dell’organizzazione sionista nel mondo.14
L’Organizzazione Sionista era così riuscita a costruire una robusta rete organizzativa a tutti i livelli e in tutti i campi e soprattutto ad essere presente anche nella massima assise internazionale, la Società delle Nazioni. Ma in tutta questa efficienza, questo dinamismo, questa grande capacità politica e imprenditoriale dei sionisti c’è un punto debole, intrinseco alla loro azione che si è mantenuto in larga misura fino ai giorni nostri: la sorte della comunità ebraica palestinese è legata agli investimenti finanziari e alle sovvenzioni provenienti dall’estero, e questo fu un fattore di continua incertezza e instabilità sia per lo sviluppo economico della comunità, sia per l’immigrazione ebraica.15 Scrive l’economista Riccardo Bachi: “Durante gli anni 1926-27 e buona parte del 1928, la Palestina è stata colpita da una grave crisi determinata da quella eccessiva espansione dell’immigrazione ed anche in qualche misura, da un certo ristagno nell’arrivo di denaro sionista. Ne è risultato uno squilibrio economico, una contrazione in molte forme di attività e specialmente nell’industria edilizia.”16
Una ripercussione di questa diminuzione di investimenti e di eccessiva immigrazione si ebbe immediatamente nel campo del lavoro, dove si registrò un calo dell’occupazione ebraica e come ultima conseguenza l’emigrazione ebraica dalla Palestina. Al proposito citiamo la seguente statistica tratta dal rapporto britannico del 1938 e riportata da Ettore Anchieri.17
Anno |
Immigrazione ebraica |
Emigrazione ebraica |
1926 |
13081 |
7365 |
1927 |
2713 |
5071 |
1928 |
2178 |
2168 |
In Palestina, pochi anni dopo l’inizio dell’amministrazione mandataria, prese ad operare il partito comunista locale. Nel 1924 venne riconosciuto dal Comintern il KPP, Partito Comunista Palestinese, come membro dell’Internazionale comunista.18
Ma prima di questo partito c’era già stata un’altra organizzazione a carattere comunista, nata da una scissione di gruppi di sinistra della sinistra operaia sionista nel Settembre 1920 (MOPS).19
Il 1° Maggio 1921 seguaci del MOPS, che aveva anche iscritti arabi, organizzarono una manifestazione separata da quella della Histadruth e a Giaffa i due cortei si scontrarono. Gli Arabi approfittarono dell’occasione per attaccare il quartiere ebraico della città, così i dirigenti ebrei ed arabi del MOPS furono arrestati ed espulsi dalla Palestina come responsabili degli incidenti.20
Se il primo partito marxista palestinese era stato in tal modo disintegrato dall’autorità mandataria, gruppi di comunisti continuarono ad esistere nel paese anche se soprattutto occupati a lottare tra di loro per più o meno gravi dissensi ideologici.21
Questo fatto, però, non deve destare meraviglia dal momento che i pochi comunisti palestinesi vivevano tra le masse ebraiche influenzate dall’ideologia sionista e soprattutto dal sionismo pionieristico e socialisteggiante che esercitava una grande attrazione su quelle masse immigrate nel paese. I vari gruppi di comunisti quindi erano travagliati soprattutto dalla definizione della loro posizione nei riguardi del sionismo, dalle prospettive politiche da dare alle masse ebraiche di Palestina e dal grosso problema del legame assolutamente irrinunciabile con la popolazione araba palestinese.
Alla quinta conferenza del partito, seguendo le direttive di Radek, la parola d’ordine fu quella di creare un partito arabo di massa alle cui sorti legare il successo dell’azione politica comunista.22
Nell’Aprile del 1924, con un gesto essenzialmente di destra, la Histadruth espulse i comunisti dall’organizzazione “non per le loro idee politiche, ma per l’attività sovversiva.”23
Ma proprio l’esiguità delle forze del partito, le divergenze interne, la sua dipendenza assoluta dal Cominter, che spesso era veramente troppo lontano dalla Palestina per indirizzarne la linea politica, le difficoltà della clandestina e lo stato retrogrado delle masse arabe impedirono ai comunisti di trovare un approccio saldo e originale con l’unica possibile forza rivoluzionaria del paese: i pochi proletari arabi e i molti contadini e pastori poveri arabi.
Nel 1924 il Partito comunista palestinese fece un tentativo che avrebbe potuto essere gravido di buoni frutti. A proposito delle elezioni amministrative, i comunisti invitarono a votare per i nazionalisti arabi più radicali. Ma sia Musa Quazim Pascia che Hagg Amin Alì el-Husein non dettero alcuna risposta a questo gesto che era una chiara proposta d’alleanza nella lotta contro il sionismo.24
Ciò fu dovuto al fatto che i capi dei partiti ufficiali arabi, esponenti della classe reazionaria dei grandi proprietari terrieri e della borghesia professionale, ultra moderata o nettamente conservatrice, osteggiavano, sia pure su un piano tattico, un’alleanza con i comunisti, il cui peso politico e la cui influenza sulle masse arabe erano del resto assai modesti.25
Negli anni dal 1930 al 1940 la lotta dei comunisti fu diretta contro il sindacato sionista e le organizzazioni operaie sioniste, che erano considerate il nemico numero uno del proletariato ebraico di Palestina, in quanto alienavano i proletari ebrei con parole d’ordine falsamente socialiste, in realtà nazionaliste, e li ponevano oggettivamente contro la popolazione araba a tutto favore della potenza mandataria. A questo proposito George Mansur, scrittore arabo palestinese, ricorda un giornale in lingua araba pubblicato dai comunisti palestinesi e destinato alla propaganda e all’informazione politica tra i lavoratori arabi.26
Ma, malgrado la sua attività, il Partito comunista palestinese, per le particolari condizioni in cui era nato e nelle quali si trovò ad operare, rimaste sempre e soltanto un piccolo gruppo di agitatori molto isolato nel paese. Ad accrescere la sua debolezza fu il fatto che, come nota il Laqueur, l’antisionismo spingeva gran parte degli ebrei comunisti ad emigrare dalla Palestina.27
Le masse ebraica erano quindi soggiogate dal movimento sionista e la loro stessa estrazione di classe, in maggioranza piccola borghesia in tutte le sue gradazioni socio-economiche, non facilitava il contatto con le idee internazionaliste e rivoluzionarie della III Internazionale. Anche le organizzazioni ebraiche di tipo socialista non poterono mai articolare un discorso di classe, in quanto impedite, sia sul piano ideologico che su quello pratico, dal legame con il nazionalismo sionista. E il connubio sionismo-socialismo 28 non è possibile senza che una delle due ideologie perda le sue proprie caratteristiche. Lo stesso Bund russo e quello polacco dei primi del secolo dimostrarono di condividere con il sionismo l’ideologia nazionalista nel momento in cui sentivano la necessità di avere un’organizzazione operaia ebraica particolare.29
Il movimento sionista, che aveva iniziato la colonizzazione della terra araba, con il mito nazionalista della redenzione d’Israele, oggettivamente sfruttò le miserevoli condizioni di vita delle migliaia di Ebrei dell’Europa Orientale, convogliandoli in una impresa nella quale questi diseredati si rendevano complici di una operazione imperialistica inglese; l’aristocrazia araba, d’altro canto, divisa dagli interessi di famiglie tra loro nemiche, attaccata ai suoi privilegi economici e politici, fu incapace di scatenare una lotta patriottica contro l’Inghilterra e i suoi alleati sionisti, e così la precaria situazione politica della Palestina continuò tra alleanze equivoche ed opportunista da entrambe le parti, senza che da nessuna delle due riuscisse ad emergere una forza politica nuova che potesse realmente avviare la soluzione del problema palestinese negli interessi autentici delle masse arabe e delle masse ebraiche già emigrate nel paese.
La calma e pacifica convivenza degli anni 1922-1928 30 terminò con un incidente quasi banale che, per l’ampiezza della sua ripercussione, ci rivela quale fuoco covasse sotto la cenere. Il 24 Settembre del 1928, in occasione della festività ebraica del Kippùr, gli Ebrei avevano montato e fissato al suolo un tramezzo di legno vicino al Muro del Pianto, sacro agli israeliti perché è quanto rimane dell’antico Tempio di Gerusalemme, e gli Arabi perché ritenuto parte della stalla del cavallo preferito del Profeta e in quanto tale Haram esh-sherif (luogo santo). Gli Arabi non tollerarono questa violazione all’uso plurisecolare, secondo il quale gli israeliti avevano libero accesso al Muro e potevano portare oggetti inerenti al loro culto, ma senza occupare il suolo adiacente al Muro con costruzioni. L’autorità inglese intervenne ed intimò agli Ebrei (già avvertiti la sera prima) di togliere il tramezzo. Questi rifiutarono con il pretesto che quello era un giorno festivo e che non potevano quindi fare alcun lavoro. Fu allora la polizia inglese a smontare e portare via la costruzione montata dagli ebrei. Ma gli animi erano accesi.
Gli Ebrei gridarono al sacrilegio, gli Arabi parlarono e scrissero di un chiaro tentativo di sopraffazione da parte della minoranza ebraica anche per quanto riguardava i luoghi santi. Gli Arabi non sbagliavano. Il 25 Settembre, infatti, una delegazione ebraica presieduta dal colonnello Kisch in qualità di rappresentante dell’Esecutivo Sionista, andò a protestare presso l’Alto Commissario inglese. E non si limitò a questo, ma chiese che venisse posta e risolta la questione dell’appartenenza del Muro del Pianto a favore degli Ebrei.31 Il governo inglese prese posizione sulla questione con il libro bianco del 27 Novembre 1928, nel quale, pur cercando di non urtare i sionisti, confermava che il Muro del Pianto era un luogo santo sia israelita che musulmano, ma che la proprietà del Muro e del pavimento di fronte al Muro era della comunità religiosa musulmana.32
A proposito della reazione araba all’incidente del Muro del Pianto del 24 Settembre 1928 è significativo un articolo apparso sul Filastin, giornale arabo cristiano di Giaffa, il 6 Novembre 1928.
Il giornale scriveva che non bastava combattere gli Ebrei sul terreno dei luoghi santi, ma sottolineava che il vero pericolo ebraico era quello della colonizzazione e si chiedeva cosa valesse difendere i luoghi santi se la terra palestinese passava nelle mani dei colonizzatori sionisti.33
Nel Settembre 1928 finì quindi quell’ “appeasement” che durava per lo meno dal 1922; gli anni seguenti dimostrarono sempre più quanto gli interessi dei sionisti e quelli del popolo arabo della Palestina fossero antitetici e le divergenze tra le due comunità si allargarono a forbice.
La rivolta araba in Palestina, specialmente fino al 1938, si articolò principalmente come guerriglia in campagna e nel deserto e come terrorismo urbano nelle città.
I motivi fondamentali di questa forma di lotta erano essenzialmente due:
1) la debolezza araba nei confronti dei sionisti e degli inglesi;
2) la guerriglia come unica possibilità di tentare il rovesciamento della situazione in Palestina.
La questione della guerriglia araba, per essere compresa nella sua reale portata storica, deve essere analizzata come fenomeno di ribellione sorto dalla realtà palestinese, nel momento in cui la installazione sionista assumeva delle proporzioni e dei caratteri sempre più allarmanti per la popolazione araba.
I sionisti e gli storici di parte sionista hanno voluto vedere la rivolta araba palestinese come un’azione di tipo delinquenziale, istigata specialmente dal Mufti di Gerusalemme o come un’azione politica malvagia, dovuta esclusivamente alla propaganda dei nemici del sionismo. Come se, cioè, la ribellione araba non fosse stata rispondente agli interessi della popolazione araba palestinese. Scrittori della questione palestinese, come il sionista revisionista americano J. B. Schechtman 34, vedono il Mufti di Gerusalemme come il deus ex machina di tutta la storia della Palestina tra le due guerre e ne fanno un personaggio chiave per tutta la storia del cosiddetto Medio Oriente in quel periodo e anche dopo la seconda guerra mondiale.
Hagg Amin el-Huseini, il Mufti di Gerusalemme, ebbe un ruolo di primo piano nel movimento nazionale arabo e fu un oppositore accanito, razzista, non solo del sionismo ma degli Ebrei in quanto tali; tuttavia non fu mai il gigante politico che J. B. Schechtman dipinge. Ma la situazione oggettiva vedeva la popolazione araba discriminata sul lavoro 35, scacciata dalla terra, sia ad opera dei traditori arabi che vendevano con gran profitto le loro terre ai sionisti 36, e poi prendevano atteggiamenti ultranazionalisti, sia ad opera del governo mandatario che, donando terre all’Agenzia Ebraica 37, espelleva i pastori beduini e i coltivatori delle terre, con conseguente perdita dei mezzi di sostentamento.
A questi Arabi che vedevano il proprio paese colonizzato da stranieri provenienti da tutte le parti del mondo, che perdevano il lavoro, i cui figli non avevano istruzione, il cui paese non veniva avviato a quell’indipendenza politica, scopo per il quale la Società delle Nazioni aveva dato il mandato alla Gran Bretagna, a questi Arabi economicamente poveri e impoveriti, frustrati nelle loro aspirazioni politiche, ma nello stesso tempo senza una profonda coscienza politica, si rivolgeva il Mufti di Gerusalemme. E se nel gioco politico di Hagg Amin, da un certo periodo in poi, entrarono le potenze fasciste dell’ “Asse” 38, se le sue stesse convinzioni politiche erano di tipo totalitario e razzista, non si può ridurre la rivolta araba in Palestina, che traeva alimento dalle condizioni d’esistenza sopra descritte degli Arabi, all’azione del Mufti di Gerusalemme istigato da Hitler e Mussolini, anche se il ruolo del Mufti fu di grande importanza nell’utilizzazione politica dei risultati della lotta e in parte nella sua direzione.
Continua…
Note
1 Ibidem, p. 4
2 Ibidem, p. 4
3 Cfr. M. Barz-Zohar, op. cit., pp. 35-36. Giorgio Romano, Ben Gurion, Milano, 1967, pp. 71-72. Histadruth The General Federation of Labour in Israel, a cura del Comitato Esecutivo della Histadruth, s.d., p. 3. G. Valabrega, La fondazione dell’Istadruth e i partiti ebraici del lavoro, in “Il Ponte,” dicembre 1958, pp. 1633-1640 [nota del blog: l’articolo verrà messo nell’Appendice]. Georges Friedmann, Fine del popolo ebraico?, Milano, 1968, pp. 90-91. Nota del blog. Riportiamo una sintesi su Ben-Gurion e l’Histadrùt scritto dallo stesso Romano e inserito nel libro curato da Rainero Romain, “I personaggi della storia contemporanea”, Marzorati Editore, Milano, 1975, Volume 1: “Il movimento operaio era allora diviso in tre gruppi, ciascuno dei quali, quantunque esiguo, teneva moltissimo alla propria autonomia e respingeva l’adesione ai movimenti socialisti internazionali: una prima vittoria di Ben Gurion fu di conseguire nel 1919 l’unificazione delle diverse fazioni e fondare il partito Achdut Havodà (Unione del Lavoro), che doveva costituire il nucleo del futuro partito MAPAI, anche se per il momento un’importante fazione (Ha-Poel Hazaìr – Il giovane lavoratore) ne restava fuori. Poco dopo, egli otteneva di essere inviato a Londra, dove era riunita una conferenza sionistica generale, per far sentire, in seno al movimento sionistico, la presenza e il peso del raggruppamento operaio e dei socialisti di Palestina. Fu una decisione ricca di conseguenze: in quel mondo borghese e ancor legato a concezioni diasporiche, che concepiva il movimento sionistico soprattutto come una grande macchina che, dall’esterno, doveva provvedere ai bisogni della crescente popolazione ebraica di Erez Israel, quella voce del rappresentante degli ebrei palestinesi, che lavoravano la terra e fondavano colonie e città, indicò una svolta determinate. [… Ben-Gurion] Ritornato in Palestina, dopo aver preso contatti in Europa con le organizzazioni ebraiche e dell’ala socialista del sionismo, ebbe parte decisiva nella fondazione della Federazione generale dei lavoratori della terra d’Israele, più nota sotto il nome di Histadrùt (dalla prima parola della denominazione ebraica) che avrebbe dovuto svolgere successivamente – e ancora svolge – un’azione di importanza preminente nel paese. Raggruppamento di lavoratori, che non riunisce soltanto gli operai, ma gli insegnanti, gli scrittori, i liberi professionisti e larghi gruppi di persone attive in ogni settore […]” (pagg. 76-77) Riguardo le critiche verso l’Histadrùt, riportiamo alcune citazioni del Capitolo 2, “Labor zionism and the arab working class” del libro di Lockman Zachary, “Comrades and Enemies: Arab and Jewish Workers in Palestine, 1906-1948”, University of California Press, 1996, pagg. 65-76. La questione del rapporto tra sionismo e maggioranza palestinese, e in particolare la classe operaia araba ed ebraica, “diventava sempre più complessa, sia come problema teorico nell’ideologia sionista socialista, sia come questione pratica urgente.” Dopo il primo conflitto mondiale, i leader sionisti socialisti in Palestina “avevano compreso l’urgente necessità di creare un quadro organizzativo unificato per i lavoratori ebrei in Palestina e che fosse al di sopra dei partiti esistenti”, oltre a rafforzare “il peso politico e sociale del movimento nello Yishuv [insediamento, ndt]. Dopo lunghe trattative e diverse iniziative fallite, nel Novembre 1920 si tennero le elezioni per i delegati al congresso dei lavoratori ebrei in Palestina. Su una popolazione ebraica totale di circa 80mila persone, parteciparono meno di 4.500 elettori.” La nascita dell’Histadrùt, voluto fortemente dai due partiti politici sionisti predominanti, Ahdut Ha’avoda e Hapo’el Hatza’ir, doveva servire “non come una federazione sindacale sul modello europeo ma, piuttosto, come uno strumento il cui scopo principale era quello di promuovere l’insediamento in Palestina dei lavoratori ebrei e costruire una comunità ebraica. L’Histadrùt avrebbe così incarnato la sintesi sionista socialista nella sua forma “costruttivista” emergente, agendo come avanguardia del progetto sionista in Palestina e rafforzando, al contempo, il potere del movimento operaio ebraico all’interno dello Yishuv e del movimento sionista stesso. Ciò richiedeva naturalmente che l’Histadrut fosse un’organizzazione esclusivamente ebraica piuttosto che aperta a tutti i lavoratori della Palestina – in quanto non avrebbe potuto svolgere i suoi compiti sionisti.” Il lavoro svolto, in tal senso, dall’Histadrut e, più nello specifico, da Ben-Gurion, fu quello di portare avanti una cultura “civilizzatrice” lavorativa (anche se sarebbe meglio dire “operazione colonizzatrice europea-britannica”) nel mondo arabo, specie tra i lavoratori autoctoni, e di consapevolezza degli stessi lavoratori ebrei all’interno dei posti di lavoro. Per capire meglio questo passaggio, Lockman riporta un discorso sostenuto da Ben-Gurion presso il consiglio sindacale dei lavoratori ferroviari nel 1924: “Per i lavoratori esistono questioni di interesse comune in cui non vi è alcuna differenza tra ebrei e arabi, inglesi o francesi. Si tratta di questioni che riguardano il lavoro: orari, salari, rapporti con il datore di lavoro, protezione contro gli infortuni, diritto dei lavoratori di organizzarsi e così via. In tutti questi ambiti lavoriamo insieme. E ci sono interessi specifici dei lavoratori di ciascuna nazionalità, interessi specifici ma non contraddittori che riguardano le loro esigenze nazionali: la loro cultura, la loro lingua, la libertà del loro popolo, ecc. In tutti questi ambiti deve esserci completa autonomia e uguaglianza per i lavoratori di ciascuna nazione.”Questa presunta alleanza di classe tra i lavoratori arabi ed ebrei, sbandierata da Ben-Gurion e soci, serviva per depotenziare politicamente il nascente nazionalismo arabo-palestinese e, cosa assai importante, far accettare ai proletari autoctoni il carattere progressista e benefico del progetto sionista.
4 Scrive l’economista Riccardo Bachi nel suo La Palestina ebraica, Torino, 1929, p. 20: “i prestiti dal Keren Hayesod sono rimborsabili entro 50 anni con l’interesse annuo del 2,5%; il canone annuo (fra interesse e rimborso) è in media del 3,5% e si svolte in misura crescente incominciando dal 2,5% per salire gradualmente lungo anni. È stabilito il privilegio sugli edifici e piantagioni a garanzia del pagamento del debito, e sui raccolti pendenti a garanzia delle rate annuali.”
5 I. Elazari Volcani, Jewish Colonization in Palestine, “The Annals of the American Academy of political and social science,” November 1932, p. 86. Nota del blog. Yitzhak Elazari Volcani fu un agronomo e botanico ebreo che fondò, nel 1921, la Stazione di Ricerca Agricola dell’Agenzia Ebraica per Israele – conosciuta, oggi giorno, come “Organizzazione per la Ricerca Agricola di Israele” (ARO) o “Centro Volcani.” Volcani, nell’articolo che Goglia menziona, dà dei consigli tecnici sulla colonizzazione in Palestina: “(1) La terra è di proprietà, e per sempre, del Keren Kayemeth, e il colono paga un affitto per l’uso della terra. (2) A un colono non viene assegnata più terra di quanta una famiglia possa coltivarla con il proprio lavoro. (3) L’unità di terra assegnata è di circa 25-33 acri di terreno pesante non irrigato, oppure 6,25-7,5 acri di terreno pesante irrigato, oppure 3-3,75 acri di terreno irrigato destinato a piantagioni (agrumi). (4) Il costo delle attrezzature per colono, escluso il terreno, non deve superare i 3500 dollari circa. (5) Di solito, i gruppi di braccianti agricoli in Palestina che hanno lavorato, nella maggior parte dei casi, non meno di cinque anni, possono essere usati. (6) Chi si è stabilito [in Palestina] sceglie una delle due forme di insediamento: la “Kvutzah” o la “Moshav.” La Kvutzah è un insediamento agricolo cooperativo gestito da un comitato eletto tra i membri. I diversi tipi di lavoro sono distribuiti tra i membri, che generalmente sono specializzati in vari settori. La Kvutzah è responsabile del mantenimento dei membri e delle loro famiglie che vi risiedono. I proventi sono distribuiti in base alle esigenze dei membri. Il Moshav (insediamento di piccoli proprietari terrieri) è costruito sotto forma di villaggio; ogni colono possiede e lavora la propria terra, risiede nella propria casa e possiede i propri beni. Ma tutti gli acquisti e le vendite, il lavoro con le macchine agricole più pesanti, il mantenimento dei finanziamenti e l’organizzazione educativa e sociale dei villaggi sono cooperativi. L’esclusione della manodopera salariata, l’aiuto reciproco e l’adesione alle istituzioni cooperative sono obbligatori per ogni membro del moshav.”
6 Boris Stern, The kibbutz that was, Washington, 1965, p. 1 e pp. 14-15. H. Viteless, A history of the cooperative movement in Israel. Book II: The evolution of the kibbutz movement, London, 1967, p. 4. Giorgio Roletto, Israele, Milano, 1960, p. 109. Vittorio Segre, Israele e i suoi problemi, Milano, 1962, pp. 49-63
7 Motto del kibbutz è “da ognuno secondo la sua abilità e ad ognuno secondo i suoi bisogni,” B. Stern, op. cit., p. 14
8 B. Stern, op. cit., p. 1. H. Viteless, A history of the cooperative movement in Israel. Book four: Cooperative small holders settlements (the moshav movement), London, 1968, p. 3. G. Roletto, op. cit., p. 111
9 B. Stern, op. cit., p. 1 e G. Roletto, op. cit., p. 112
10 H. Viteless, op. cit., p. 3 e G. Roletto, op. cit. , p. 113
11 Ibidem
12 “Survey of international affair”, cit., articolo di Leonard Stein, p. 385. Nota del blog. Calcolando la cifra finale col calcolatore dell’inflazione della Banca d’Inghilterra, dieci milioni di lire sterline del 1926 corrispondono a 533 milioni di sterline odierne. (dato Agosto 2025)
13 Ibidem, pp. 385-386
14 Annuaire de la Societè des Nations 1920-27, Genève, 1927, p. 993. Nota del blog. La questione
15 Nota del blog. Nell’articolo “La Palestina sotto Lord Plumer”, pubblicato su “l’Unità. Organo del Partito Comunista d’Italia”, a. III, n. 77, 31 Marzo 1926, vengono descritte le politiche coloniali violente inglesi – in special modo contro la popolazione araba –, e la crisi e annessa violenza sociale ed economica subita dagli immigrati ebrei. Citiamo a tal merito: “malgrado l’unione fra gli imperialisti britannici e la organizzazione sionista si sia fatta più stretta in questi ultimi tempi sarebbe errore ritenere che la politica di violenza degli inglesi sia diretta soltanto contro la popolazione araba ed accordi invece speciali privilegi a quella israelita. L’organizzazione sionista riceve migliaia di “certificati” che le danno diritto di far immigrare in paese migliaia di giudei; ma il governo non fa assolutamente niente per aiutare questa gente. Su 25mila immigranti scesi in Palestina nel 1925, soltanto l’1% (cioè 300 circa) sono stati occupati nell’agricoltura: la grande massa è rimasta nelle città dove, soltanto una piccola parte ha potuto essere assorbita da una industria agli inizi, priva di esperienza, di credito, e di capitali. La maggior parte dei nuovi immigranti […] sono ben lungi dall’avere una posizione economica solida. Un’assemblea di delegati ebrei, riunita nello scorso Gennaio a Gerusalemme, tracciò un quadro spaventevole della miseria di 140mila persone che costituiscono attualmente la popolazione israelita di immigrazione in Palestina; e constatò la difficoltà grandissima di trovare una via di uscita da una tale crisi, dato che la borghesia ebraica possidente non vuole assumersi la responsabilità della “immigrazione di inflazione” e che i fondi sionisti, dopo le speranze dell’estate, non sono nemmeno in stato di coprire il deficit delle imprese di colonizzazione esistenti. […]” (pag. 306 della slide)
16 R. Bachi, op. cit., p. 39
17 Ettore Anchieri, La questione palestinese, Milano-Messina, 1940, p. 98. Nota del blog. Anchieri riporta la seguente nota a pie’ pagina riguardo le cifre sull’immigrazione: “i dati seguenti sono tratti dal Report for 1938 e derivano da computi amministrativi, poiché veri censimenti non furono fatti che nell’Ottobre 1922 e nel Novembre 1931.”
18 Walter Z. Laqueur, Comunismo e nazionalismo nel Medio Oriente, Roma, 1959, p. 119. Vedi per le questioni del movimento dei lavoratori in Palestina la tesi di laurea di Guido Valabrega, Questioni sul movimento operaio e contadino in Palestina dal 1920 al 1948, anno accademico 1956-57, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino.
19 W. Z. Laqueur, op. cit., p. 116
20 W. Z. Laqueur, op. cit., p. 117-118. “Oriente Moderno”, n. 1 (1921), p. 17. Nota del blog. Citiamo il trafiletto di “Oriente Moderno”: “Palestina e Mesopotamia. Lord Churchill si è recentemente recato in Egitto ed in Palestina per esaminare de visu il problema arabo. A tale scopo ha udito varie Delegazioni degli Stati arabi. Mentre la Mesopotamia sembra orientarsi verso l’erezione in Stato sovrano, sotto la reggenza dell’emiro Faisal, si accenna alla possibilità di creare una Transgiordania, indipendente, con a capo il fratello di Faisal, Abdullah. In Palestina ferve attivissimo ii lavoro dei Sionisti per la formazione del grande centro nazionale ebraico, favorito dagli Inglesi ; ma la resistenza e la opposizione della popolazione è scoppiata anche in aperti e sanguinosi conflitti.” Nella stampa italiana, “Il Corriere della Sera” riporta il comunicato del Ministero delle Colonie del 5 Maggio 1921: “il 1° Maggio sono scoppiati disordini a Giaffa (Palestina) fra comunisti israeliti e alcuni operai dei quartiere israelita. Il giorno 2 i disordini sono ricominciati. […] Una sessantina di persone sono rimaste uccise: trenta israeliti e trenta arabi. Vi sono stati 142 feriti israeliti e 37 arabi. […] È stata proclamata la legge marziale.” Il giorno dopo, 6 Maggio 1921, la situazione è sempre più grave a Giaffa secondo il quotidiano italiano: “sono stati assassinati altri numerosi israeliti. Le scene di saccheggio sono continue.” Se si vuol approfondire la questione specifica del 1° Maggio 1921 – meglio conosciuto come i “moti di Giaffa” -, rimandiamo al report della Commissione di indagine britannica, “Palestine. Disturbances in May, 1921”, e al libro di Segev Tom, op. cit., capitolo 8, “Jaffa, 1921”, pagg. 173-190.
21 W. Z. Laqueur, op. cit., p. 112
22 Ibidem, p. 120
23 Ibidem
24 Ibidem, p. 123
25 Riguardo i comunisti palestinesi e la loro opera nel Levante Arabo sorge una questione. Lo scrittore algerino di tendenza filo-israeliana Abdel-Razak Abdel Kader afferma che i comunisti ebrei della Palestina furono i diffusori del marxismo-leninismo in tutta l’area araba e che molto devono a loro anche i partiti comunisti arabi attuali – Abdel-Razak Abdel Kader, Israele e il mondo arabo, Milano, 1964, pp. 464-476. Ma il dirigente comunista siriano Nadir ebbe ad affermare che il Partito comunista palestinese aveva formato dei dirigenti arabi pro-sionisti che indebolivano e confondevano i partiti comunisti arabi – Inprecorr, 10 Ottobre 1935. È accertato che effettivamente furono ebrei i primi comunisti del Medio Oriente e che contribuirono grandemente a diffondere le teorie rivoluzionarie del comunismo in questa parte del mondo, altrettanto vero ci sembra, però, che i dirigenti comunisti ebrei palestinesi spesso non seppero adottare una posizione internazionalista e rivoluzionaria (di classe) nei confronti del sionismo. La stessa storia del Partito comunista palestinese pare confortare questa nostra visione delle cose, che è valida, con la cautela dovuta in un parallelo di questo tipo, fino ai nostri giorni, in cui noi vediamo che i comunisti israeliani sono divisi in due formazioni politiche differenti, ove una delle due (quella di Mikunis e di Such) accoglie molte istanze del partito laburista sionista, come ad esempio il nazionalismo sionista. Nota del blog. Oltre al Partito Comunista Palestinese, nella regione sotto mandato britannico operavano anche altri movimenti e gruppi. Valabrega Guido, nel suo libro antologico “Ebrei, fascismo, sionismo”, scrive che, in concomitanza con l’iniziale crisi economica nella Palestina di inizi anni ‘20, esistevano “diversi partiti e organizzazioni ebraiche con tendenze progressiste e socialiste. In verità alcuni tra essi non avevano ancora fatto in tempo a differenziarsi in maniera netta rispetto alla loro origine slava; per un certo periodo di transizione i neo-immigrati si vollero attenere scrupolosamente alla cornice ideologica precostituita, quantunque inadatta al nuovo paese, credendo di poterla rendere direttamente operante secondo gli schemi stabiliti nella diaspora.” (pag. 378). Tali partiti avrebbero preso piede in Palestina grazie alla propaganda derivante dalla Rivoluzione russa del 1917 e, più in generale, dai grandi cambiamenti sociali dopo la fine del primo conflitto mondiale. Nel contesto libertario e non strettamente anarchico, Gordon Uri, nell’articolo “Anarchism in Israel and Palestine” – aggiunto nel libro curato da Ness Immanuel, “The International Encyclopedia of Revolution and Protest”, Wiley, 2009 -, riporta che un movimento giovanile sionista-socialista composto da immigrati ebrei creò l’Hashomer Hatzair (Giovane Guardia); questo, inizialmente, “fondò una federazione di nuovi kibbutz durante la terza ondata migratoria del 1919. I suoi membri facevano espliciti riferimenti all’anarchismo nei loro appelli, all’indipendenza comunitaria, alle relazioni egualitarie, alla democrazia diretta e al rinnovamento spirituale.” Altro gruppo, sempre citato dall’articolo di Uri Gordon, fu il Gdud Haavoda (Battaglione del Lavoro); esso supportò delle politiche comunarde e decentralizzate, salvo poi spaccarsi in due parti (socialista da una parte, pionieristica-sionista dall’altra) nel 1923.
26 G. Mansur, The arab worker under the mandate, Jerusalem, 1937, p. 29. Nota del blog. Il giornale accademico “Settler Colonial Studies” ha pubblicato alcuni estratti (qui online) del lavoro di Mansur. Il giornale menzionato da Mansur e citato da Goglia dovrebbe essere il settimanale in lingua ebraica (e non araba) “Ha’or” (“Luce”) che “pubblicava un supplemento in arabo atto a denunciare gli obiettivi sionisti ai lavoratori arabi.” Fondato dall’avvocato comunista trotskista Mordecai Stein (1894-1969), il settimanale “Ha’or” (1925-1939) fu l’organo non ufficiale del Partito Comunista Palestinese. La rottura e la conseguente chiusura del giornale avvenne all’atto che Stein criticò aspramente le purghe staliniane e tutto l’impianto su cui si fondava l’URSS sotto la gestione di Stalin e soci. Il settimanale curato da Stein si trova depositato (e non scansionato) presso la Biblioteca Nazionale Israeliana di Gerusalemme, fondo “Archivio del Partito Comunista Palestinese.” Per altri dettagli su Stein e il giornale “Ha’or” si rimanda all’articolo scritto in ebraico “The Democratic Newspaper” and its Editor, Mordecai Stein / “העתון הדימוקרטי” ועורכו מרדכי שטיין,” pubblicato nella rivista Kesher, n. 22, 1997, pagg. 95-108. Ulteriori scritti di Stein si trovano sul sito marxist.org.
27 W. Z. Laqueur, op. cit., p. 116
28 Dov Ber Borochov (1881-1917), ebreo russo, è il teorico del socialismo sionista. Valabrega, nella sua tesi di laurea già citata, a p. 100 scrive: “Il compito principale che Borochov s’è assunto si può perciò definire così: applicare il metodo marxista alle vicende della minoranza ebraica, sostituendo ai problemi della lotta di classe, i problemi delle nazionalità e “rinviando” la soluzione dei contrasti strettamente economici al futuro, quando lo Stato nazionale, ricostituito dalla minoranza, si sia formato e organizzato compiutamente.”
29 Si va di V. I. Lenin, Occorre un partito politico autonomo al proletariato ebraico?, in Opere complete, ed. it, vol. VI, Roma, 1959, pp. 306-311; e La posizione del Bund nel partito, in Opere Complete, Vol. VII, pp. 93-97; e Sul diritto delle nazioni all’autodecisione, Mosca, 1949; Isaac Deutscher, Il Profeta armato, Milano, 1956, pp. 108-111, in cui D. riferisce la posizione di Trotsky contro il Bund ebraico; Lev Trotsky, Storia della rivoluzione russa, Milano, 1969, I ed., vol. II, pp. 935-936; J. Stalin, Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Torino, 1949, I ed., pp. 46-47 e 93-105; Giorgio Migliardi, Lenin, la questione ebraica e il sionismo, in “Rivoluzione Palestinese” n. 6-7 (1969), pp. 43-46 e Roberto Finzi, In margine ad una lettura di Weizmann, “Studi storici”, n. 3 (1969), pp. 530-534. Nota del blog. Citiamo alcuni stralci dell’articolo di Finzi: “La più importante e forte delle organizzazioni operaie ebraiche, il Bund, difendendo gelosamente questa propria identificazione particolare d’organizzazione ebraica, quando pure nei paesi in cui opera s’è sviluppato un forte movimento operaio di massa, mentre “prima sottolineava i problemi generali, ha cominciato ora a mettere in primo piano i suol scopi particolari, puramente nazionalisti”, d’un nazionalismo che per nulla si differenzia da quello borghese. Questo giudizio, drastico, di Stalin è del 1912 ed è sostanzialmente condiviso, prima e dopo questa data, da tutti i leaders del futuro gruppo dirigente sovietico. Come Stalin cosi Lenin e Trockij rigettano il programma bundista, ispirato alla tesi di O. Bauer, di “autonomia nazional-culturale” degli ebrei. […] Lenin ammette che il Bund deve agire in condizioni speciali e O. Bauer – con procedimento contrario a quello di Stalin e sulla base d’una concezione di nazione che poco o nulla ha a che fare con quella sviluppata dai bolscevichi – parte dall’ammissione dell’esistenza di una nazionalità ebraica per dubitare poi che essa abbia la possibilità d’identificarsi nelle soluzioni valide per le altre nazioni: il destino dell’ebreo è – comunque – l’assimilazione. II sionismo è sostanzialmente falso e reazionario – afferma Lenin – in quanto tende ad isolare gli ebrei e, isolandoli, non fa che aggravare la loro condizione particolare, distorce sostanzialmente la loro collocazione di classe. […] Il successo notevole del Bund: nel settembre 1906, dopo il suo VIII congresso che, con la sua decisione di rientrare nel POSDR, portò alla riunificazione di tutte le forze socialdemocratiche dell’impero russo, i bundisti erano 33.000, contro 31.000 socialdemocratici russi, 26.000 polacchi, 14.000 lettoni. Anche se le cifre di Lenin fossero propagandisticamente esagerate è comunque significativo che il Bund sia segnalato come la componente numericamente più forte della socialdemocrazia russa per cui risulta difficile seguire Weizmann nella affermazione che: “la sua (del Bund n.d.r.) importanza politico-sociale all’interno dell’ebraismo è […] trascurabile: diverrebbe più forte – aggiunge il leader sionista – se concentrasse le sue energie in questo campo e non nella lotta contro l’autocrazia” (lett. 144, a Leo Motzkin, del 23 novembre 1901, p. 208). Ciò che importa rilevare è comunque che, nonostante le tortuosità della sua politica e la sua fisionomia nazionalista, non v’è dubbio che il Bund (e chi vi aderiva) accomunasse le sue sorti ad una specifica e ben precisa identificazione di classe. La testimonianza di Weizmann in questo senso è significativa. Rispondendo il 3-2-1901 a Motzkin (lett. 55, pp. 86-88), l’altro leader della frazione democratica che criticava aspramente il Bund per non essersi battuto o non essersi battuto abbastanza perchè il congresso di Parigi dell’Internazionale (1900) menzionasse fra i popoli oppressi cui aveva espresso simpatia e solidarietà, anche gli ebrei, Weizmann tende a minimizzare l’accaduto e a sottolineare invece la necessità d’un impegno a guardare più a fondo la vita del Bund dominato, secondo lui, dal conflitto fra due anime, dalla lotta fatale di due principi: quello socialista e quello nazionalista.[…]”
30 Nota del blog. Questa affermazione di Goglia non è del tutto corretta e merita un piccolo approfondimento. Nella Palestina sotto mandato britannico si susseguivano una serie di lotte operaie contro le aziende, specie ferroviarie. Ciò era dovuto alla crisi ciclica del capitalismo – specie quella che colpì la Palestina degli anni ‘20 -, e una serie di fattori politico-economici internazionali quali la Rivoluzione russa del 1917 e gli stravolgimenti coloniali perpetrati dalle nazioni vincitrici (in special modo Francia e Inghilterra). Le lotte di classe delle popolazioni arabe ed ebraiche, sostenute a volte dal Comintern, dimostrarono che negli anni ‘20, oltre ai moti di Giaffa del 1921, i nemici fossero l’imperialismo britannico e le borghesie arabe ed ebree. Oltre a queste situazioni di lotta operaia, tra i gruppi sionisti e gli arabi in generale i rapporti erano più di mal sopportazione che pacifica convivenza. Un esempio è ciò che riporta Segev Tom nel citato libro “One Palestine…”, Capitolo 9 “Culture wars”: quando Judah Leib Magnes divenne rettore dell’Università Ebraica di Gerusalemme, gli arabi palestinesi “dichiararono uno sciopero generale il giorno della cerimonia, issando bandiere nere sulle loro case. “L’università non poteva essere inaugurata senza suscitare l’ostilità del mondo musulmano contro di noi?”, scrisse Magnes ad Ahad Ha’am. Egli obiettò anche alla partecipazione di Balfour, che richiedeva di circondare il campus con “100 gendarmi britannici in più”, lamentandosi che l’università sarebbe sembrata una roccaforte dell’imperialismo britannico.” Chiaramente vi sarebbero anche altri fonti dell’epoca sui fatti palestinesi a cavallo tra il 1922 e il 1928, provenienti da fonti giornalistiche britanniche o pubblicate nelle riviste italiane quali “Oriente Moderno” e “La rassegna mensile di Israel.” Per una questione di spazio e di difficile reperibilità non li abbiamo inseriti. Per altri approfondimenti, oltre il libro di Segev, rimandiamo alle nostre note del blog quali: l’articolo de l’Unità, “La Palestina sotto Lord Plumer”, il Partito Comunista Palestinese e i gruppi e movimenti di sinistra in Palestina, Mordecai Stein e l’Ho’ar e i capitoli 2 e 3 (“Labor zionism and the arab working class” e “The railway workers of Palestine (I): the struggle”) del libro di Lockman Zachary, op. cit., pagg. 58-147
31 “Oriente Moderno,” n. 10 (1928), p. 570. Nota del blog. L’articolo in questione si trova a pagina 470. Nell’appendice si metteranno gli articoli pubblicati in questo numero di “Oriente Moderno” quali “Incidente al Muro delle Lamentazioni a Gerusalemme” e “I musulmani e l’incidente al Muro delle Lamentazioni.”
32 Ibidem, p. 568. Nota del blog. La pagina corretta è la 469.
33 Ibidem, p. 527. Nota del blog. La notizia sintetizzata da Goglia non si trova nel n. 10 di “Oriente Moderno” ma in quello successivo, l’11. È Virginia Vacca a scrivere in “Strascichi degli incidenti del Muro delle Lamentazioni” che “il Filastin di Giaffa (cristiano) ha un articolo analogo: non basta, dice, combattere gli Ebrei sul terreno dei Luoghi Santi: il vero pericolo ebraico e quello della colonizzazione, a cui bisogna resistere con un’ azione economica ben altrimenti seria. Che vale difendere il possesso dei santuari se il territorio stesso della Palestina passa intanto nelle mani dei colonizzatori ? (Filastin, 6-11-1928).” (pag. 527). Qui vi è la scansione del numero del Filastin citato (in arabo).
34 J. B. Schechtman, The Mufti and the Fuhrer, New York-London, 1965
35 G. Mansur, The arab worker under the Palestine Mandate, Jerusalem, 1937, pp. 29-31 e M. Bar Zohar, op. cit., p. 38, da cui risulta che Ben Gurion fin dai primi anni della sua venuta in Palestina avversava decisamente l’assunzione di lavoratori arabi da parte dei datori di lavoro privati ed organismi ebraici.
36 A questo proposito è strettamente interessante e significativa una tabella riportata da R. Misrahi, Les israeliens, les arabes, la terre, in “Le Temps Modernes”, n. 147-148 (1958), p. 2206: “Somme pagate dagli Ebrei e dagli Arabi dal 1920 al 1941 in milioni di L. P.: acquisti di terre 3,5; intermediari 6,5; acquisto di prodotti agricoli 18.” Risulta in modo inequivocabile come molti arabi si dedicassero a speculazioni e traffici con i sionisti; a dimostrazione della nostra affermazione valgano quei 6,5 milioni di L.P. sotto la voce di intermediari. Misrahi riporta in un’altra tabella una serie di dati che sono di notevole importanza perché dimostrano in modo estremamente chiaro quali siano stati gli arabi che favorivano l’insediamento sionista in Palestina e soprattutto a quale classe costoro appartenessero. Scrive Misrahi, op. cit., p. 2203, a proposito degli acquisti di terre da parte sionista dal 1918 al 1935 che l’aristocrazia araba non residente nel paese (e cioè grandi proprietari siriani, libanesi, giordani etc) vendette 464787 dunam di terre [pari a 464 chilometri quadrati, nota del blog], in percentuale il 92%; i piccoli proprietari contadini arabi che lavoravano la terra 38228 dunam [pari a 38 chilometri quadrati, nota del blog], appena il 7,5%.
37 Leggiamo in W. R. Polk, D. Stamler, E. Asfour, Backdrop to tragedy, Boston, 1957, p. 330, che dal 1920 al 1946 il governo mandatario concesse 18mila ettari di terre demaniali ai sionisti palestinesi.
38 Si vedano i documenti nazisti in appendice al libro di J. B. Schechtman, op. cit.. Significativa al riguardo è la posizione del reverendo Parkes, noto studioso filosionista del problema ebraico e di quello palestinese, il quale, pur con qualche riserva, ebbe a scrivere che “la causa principale della rivolta si trovava nella stessa situazione del Medio Oriente.” Si veda J. Parkes, Il problema ebraico nel mondo moderno, Firenze, 1953, p. 190. Nota del blog. Joseph Schechtman (1891-1970) fu uno storico ampiamente criticato per le sue produzioni letterarie fallaci. Goglia menziona questo autore per smontare la retorica dell’unico responsabile di tutti i fatti – ovvero al-Husseini (Mufti di Gerusalemme) – e concentrare l’analisi storica sui fattori scatenanti della rivolta araba del 1928.