Divisioni sociali
In una folle corsa senza freno alcuno, questa logica di controllo pervasivo e sfruttamento di energie rinnovabili e scoperte di nuovi giacimenti di terre rare 1 e litio – indispensabili per le tecnologie odierne -, non farà altro che aumentare le disuguaglianze sociali-economiche “tra-e- all’interno-stesso” delle due macro-parti di mondo menzionate. Sebbene “dal 1999 al 2012 circa 840 milioni di persone sono uscite dalla povertà estrema (definita come meno di 1,90 dollari al giorno di reddito o di consumo a parità di potere d’acquisto)” 2 e vi sia stato un decremento significativo fino al 2019, tra il 2020 e il 2022 questo fenomeno globale è aumentato notevolmente soprattutto in quei territori “facilmente colonizzabili” (nostro virgolettato), attestandosi oggi giorno a 670 milioni di persone che vivono con meno di 2,15 dollari al giorno. 3
Chi paga pegno di tale situazione sono quelle “383 milioni di donne e ragazze che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno rispetto a 368 milioni di uomini e ragazzi. La stragrande maggioranza [di esse] vive in due sole regioni: l’Africa subsahariana (63%) e l’Asia centrale e meridionale (21%). […] Il numero di poveri è in aumento in tutte le soglie di povertà, compresi quelli ricadenti nei 3,20 dollari al giorno e i 5,50 dollari al giorno. Un’importante avvertenza è che queste stime di povertà, misurate a livello familiare, presuppongono un’equa distribuzione delle risorse economiche tra i membri della famiglia. La realtà, invece, è che nelle società dove gli uomini detengono il potere e le donne ne sono largamente escluse è, probabilmente, molto meno equa. […] le differenze nei tassi di povertà tra le persone di età compresa tra i 15 e i 19 anni sono a sfavore delle donne nelle varie soglie di povertà (1,90 dollari (anche se in misura marginale), 3,20 dollari e 5,50 dollari al giorno). Le differenze di età all’interno del matrimonio o della formazione della famiglia, l’alta fertilità adolescenziale e l’incidenza della maternità solitaria sono fattori che contribuiscono al divario di povertà di genere. Questi divari continuano ad aumentare e raggiungono il loro picco tra le persone di età compresa tra i 25 e i 34 anni, un periodo della vita dove è più probabile che le donne si prendano cura dei bambini piccoli e le loro controparti maschili siano impegnate in attività generatrici di reddito.”4
Il divario di genere viene alimentato dalla famiglia (tra lavoro domestico e di cura), la cultura, le istituzioni e il sistema capitalistico. In sintesi, “la forza lavoro delle donne, la riproduzione delle donne, la sessualità delle donne, la mobilità delle donne, la proprietà e altre risorse economiche sono sotto il controllo patriarcale.”5
Partire da questa diseguaglianza, ci consente di cogliere la profondità e l’interconnessione con altre forme di disparità in contesti di colonizzazione verde. Abbiamo preso in esame le seguenti:
-La razzializzazione. Il capitalismo e il pensiero bianco determinano, a livello sociale ed economico, le identità razziali; tale modus operandi ha fatto emergere nei secoli degli assunti culturali sull’inferiorità e superiorità delle persone appartenenti, spesso, a diversi gruppi “bianchi” e “non bianchi / non caucasici”6, incatenando tutti questi negli schemi dello stesso sistema relazionale capitalistico.
Il docente universitario statunitense Cedric Robinson spiegava tali passaggi partendo dall’emersione del capitalismo all’interno dell’ordine feudale ed evolutosi, successivamente, nel terreno culturale di una civiltà occidentale intrisa di tematiche razziste e dipendente dalla schiavitù, dalla violenza e dal genocidio. “La borghesia che ha guidato lo sviluppo del capitalismo”, scriveva Robinson, “proveniva da particolari gruppi etnici e culturali; i proletari europei e i mercenari degli Stati leader da altri; i suoi contadini da altre culture ancora; e i suoi schiavi da mondi completamente diversi. La predisposizione della civiltà europea, attraverso il capitalismo, è stata quella di differenziare e non di omogeneizzare – quindi di esasperare le differenze regionali, subculturali e dialettali in diversità “razziali”. Come gli Slavi divennero gli schiavi naturali, il ceppo razzialmente inferiore per il dominio e lo sfruttamento durante l’Alto Medioevo, come i Tartari andarono ad occupare una posizione simile nelle città italiane del tardo Medioevo, così, all’incastro sistemico del capitalismo nel XVI secolo, i popoli del Terzo Mondo iniziarono a riempire questa categoria [schiavistica] in espansione di una civiltà riprodotta dal capitale.”7
-L’abilismo. Nel modello sociale economico odierno, le persone devono avere una o più abilità per nutrire la mega-macchina capitalistica – similare alla macchina M di “Metropolis” memoria.
Chi non possiede tali requisiti, viene consideratu come persona non abile o “disabile”. Se un tempo queste venivano recluse all’interno di strutture disumane (i manicomi 8) o uccisi (programma Aktion T4 9), oggi giorno le persone non abili sono tenute in considerazione dalle entità statali e sovra-nazionali per un mero scopo di facciata umanitaria. Seguendo la morale cristiana – dove ogni vita umana deve essere educata, salvaguardata e curata in nome di Cristo e della salvezza della sua anima -, la divisione tra le due controparti è diventata più marcata anche se nascosta abilmente da questi artifici retorici e culturali.
Nonostante la macchina mediatica e associazionistica ritragga le persone non abili come affettuose, amichevoli e calorose, nella realtà quotidiana esse vengono percepite dalla controparte abile come meno capaci, meno intelligenti, più infantili e dipendenti. Seguendo questo filo logico, la pietà e la condiscendenza – e aggiungiamo, in alcuni casi, la marginalizzazione subdola attraverso le residenze sanitarie – sono la prassi da seguire. Se una persona non abile vuol uscire da questa inazione e diventare parte integrante della macchina capitalistica, troverà il plauso e sostegno sociale-mediatico, politico (il quale è sempre in cerca di una base elettorale solida) e aziendale (desideroso di farsi pubblicità e auto-rappresentarsi come “friendly” nei confronti di tali soggetti umani). La condizione di inclusione capitalistica, quindi, fa diventare questi soggetti degli ““abili-disabili”, ovvero coloro che superano i loro limiti di disabilità attraverso forme di “scrematura” amministrativa o di iper-protesizzazione, ma lasciando indietro la grande maggioranza delle persone non-abili.”10
-Lo specismo. Al pari delle precedenti diseguaglianze, lo specismo valuta a livello morale e materiale (sfruttamento) gli animali in base ai bisogni dell’essere umano. Sotto il capitalismo, questo stato di cose si è intensificato11 : l’alienazione ha raggiunto la sua forma massima dove gli esseri umani si sono estraniati non solo dai prodotti del loro lavoro e da se stessi e i loro simili, ma anche dalle altre specie. Questo “distacco” ha creato una coscienza deformata all’interno della mente umana, portando gli esseri umani ad una violenza estrema verso gli animali. La trasformazione di quest’ultimi in oggetti o “esseri viventi-ma-non-viventi” – il cui valore si basa su un valore di scambio (monetario soprattutto)-, è figlia di una visione normalizzatrice che impedisce “di preoccuparci dei miliardi di atti violenti e brutali che compiamo sugli esseri di altre specie e delle condizioni che gli imponiamo. Impediamo a noi stessi di provare empatia, simpatia e preoccupazione per la maggior parte degli esseri di altre specie. Senza preoccuparci, lasciamo che loro facciano il nostro lavoro; e non pensiamo agli ululati, alle lacrime e alle grida di angoscia che gli altri esseri esprimono quando vengono colpiti dalle nostre stesse mani e macchine.”12
L’alienazione, quindi, ha permesso di trattare gli altri esseri come fonti di cibo, lavoro e intrattenimento. O, per meglio specificare e ripeterci, trasformare gli animali in oggetti di ricerca e sacrificio, sottoponendoli ad estremi e impensabili atti di ferocia negli allevamenti, nei macelli, nei laboratori e in altri luoghi di violenza istituzionalizzata – dove la loro sofferenza, secondo il cosiddetto senso comune, non esiste o non conta.
Dalle descrizioni e citazioni sintetizzate, queste disuguaglianze o, per meglio dire, costrutti del dominio, sono strettamente collegate fra loro e non separate a mo’ di camere stagne. Le relazioni createsi grazie al dominio capitalistico e statale è un qualcosa di altamente spaventoso e pauroso. Animali ed esseri umani non sono più esseri viventi ma oggetti; non più esseri pensanti e sociali ma “cose” asociali e conformi alle logiche di potere. I corpi (umani e animali) vivono così secondo i dettami dominanti stigmatizzanti – basati su credenze sociali-economiche apparentemente deterministiche. Questo palese impedimento di un “positivismo non normativo”13 è per i fautori del “colonialismo verde” un incentivo ulteriore nel continuare e perpetuare tali ineguaglianze – ed ottenere così il massimo profitto con privilegi conclamati e atti distruttivi annessi.
Come uscire da ciò?
Le moderne tecnologie risolvono solo una parte dei problemi e allo stesso tempo ne creano di nuovi, soprattutto nei luoghi di estrazione (energetica e lavorativa umana). Le prestazioni ambientali di questi mezzi, spesso, si traducono in scappatoie burocratiche, nascondigli, furbizie e sfruttamento dei Paesi e zone più povere del pianeta. Dobbiamo entrare nella logica che l’ecologia non riguarda solo il livello di anidride carbonica e la diffusione delle tecnologie verdi: i problemi ambientali sono anche sociali, collegati al modo in cui ci si relaziona.
Una transizione ecologica giusta, scevra dalle logiche borghesi e sociali dominanti, può esistere ed avere un senso all’atto che si rifiuta la mentalità dello sfruttamento tout court e delle differenziazioni sociali esistenti e descritte, più o meno sinteticamente, nei precedenti paragrafi.
Il mondo da costruire, quindi, deve operare al di fuori dei principi guida basati sull’individualismo possessivo capitalistico.
Per garantire che ci si prenda cura dell’intero pianeta e di se stessu, ogni voce, umana e animale che sia, deve essere presa in considerazione.
L’ordine delle cose dovrebbe essere, quindi, la costruzione di relazioni orizzontali e resistenti tra le varie realtà presenti a livello globale, disposte a ribaltare lo stato di cose presenti e senza abboccare alle retoriche del colonialismo verde, del “responsabilizzare a livello sociale/legale/civile le aziende” – le quali strutture sono guidate dalla redditività, la stessa che ci sta portando al collasso -, o del “debito che i Paesi del Nord Globale devono pagare” – dove il denaro rafforza le relazioni capitalistiche che sono esattamente ciò che dobbiamo smantellare.
Soltanto in questo modo possiamo realmente uscire dal mondo capitalistico.
Note
1“L’enorme scoperta di nuovi giacimenti di terre rare cambia le carte in tavola nella guerra commerciale tra America e Cina”. Link: https://ieneanarchiche.noblogs.org/post/2024/06/23/lenorme-scoperta-di-nuovi-giacimenti-di-terre-rare-cambia-le-carte-in-tavola-nella-guerra-commerciale-tra-america-e-cina/
2Marcel Van der Linden ed Elisa Reis, “Social Trends and New Geographies”, inserito nel libro “Rethinking Society for the 21st Century: Report of the International Panel on Social Progress”, Volume 1: Socio-Economic Transformations, Cambridge University Press, Cambridge, 2018, pag. 6 del documento pdf. Link: https://www.researchgate.net/publication/317956075_Chapter_1_Social_trends_and_new_geographies . I dati che lu due ricercatoru usano sono presi dal lavoro di Marcio Cruz et al., “Ending Extreme Poverty and Sharing Prosperity:Progress and Policies”, World Bank Group, Ottobre 2015, pagg. 6-7. Link: https://documents1.worldbank.org/curated/en/801561468198533428/pdf/101740-NWP-PRN03-Oct2015-TwinGoals-Box393265B-PUBLIC.pdf
3“The Sustainable Development Goals Report. Special edition”, 2023, pag. 12. Link: https://unstats.un.org/sdgs/report/2023/The-Sustainable-Development-Goals-Report-2023.pdf
4“Poverty is not gender-neutral”, SDG Action, 6 Marzo 2023. Link: https://sdg-action.org/poverty-is-not-gender-neutral/
5Abeda Sultana “Patriarchy and women’s subordination: a theoretical analysis”, Arts Faculty Journal, Volume 4, pag. 9. Link: https://www.banglajol.info/index.php/AFJ/article/view/12929 La citazione riportata da Sultana è attribuita erroneamente a Sylvia Walby, “Theorizing patriarchy”, Basii Blackwell, Oxford, 1990.
6Si pensi, a tal merito, a ciò che è stato fatto agli Hutu e Tutsi durante la prima colonizzazione europea. L’antropologo indo-ugandese Mahmood Mamdani nel suo libro “When victims become killers: colonialism, nativism, and the genocide in Rwanda” (Princeton University Press, 2001) sottolinea questa divisione razziale fatta dagli europei fin “dall’epoca della tratta transatlantica degli schiavi”, “riassunta in modo più sistematico, anche se non più originale, negli scritti del grande filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel” – dove questi divideva l’Africa in tre parti: “l’una è la parte posta a sud del deserto del Sahara, l’Africa vera e propria […]; l’altra è quella posta a nord del deserto, per così dire l’Africa europea […]; la terza è la regione fluviale del Nilo […].” (cit. a cura di Giovanni Bonacina e Livio Sichirollo, “Hegel. Lezioni sulla filosofia della Storia”, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2003, pag. 80). Mamdani, riprendendo in forma critica Hegel, spiega più avanti che “l’origine delle dottrine razziali europee sull’Africa risale al periodo della tratta transatlantica degli schiavi; queste dottrine crebbero in complessità nel periodo successivo, quello della “scoperta” e della conquista coloniale. Più gli europei conoscevano l’Africa, meno credibile diventava l’idea del Sahara come grande barriera civilizzatrice, e più si trovavano di fronte – e dovevano spiegare – le crescenti prove di una vita organizzata nel continente prima dell’incontro con l’Europa. Ogni segno di “progresso” nel continente nero veniva ora considerato come prova dell’influenza civilizzatrice di una razza estranea. Questa razza di civilizzatori, si diceva, era costituita da caucasici di colore nero senza essere di razza negroide. Nacquero così i Camiti dell’Africa, separati dai Bantu, i cosiddetti veri africani.” (“When victims…, pag. 59). Tali teorie razziste vennero avvallate da John Hanning Speke quando scoprì il regno di Buganda “con la sua complessa organizzazione politica” di matrice “camitica etiopica” (op. cit., pag. 63) e dal clero cattolico durante il Concilio Vaticano I che “esortava i connazionali caucasici ad organizzare un’operazione di salvataggio degli “sfortunati camiti catturati dai negri”.” (ibidem). Nel caso preso in esame, le differenze sociali ed economiche esistenti tra le due popolazioni vennero esacerbate dai tedeschi e belgi durante il periodo coloniale europeo – in cui i Tutsi erano etichettati come popolo camitico e gli Hutu come bantu. Questo stato di superiorità e inferiorità razziale, sociale ed economico avrebbe portato, a partire dalla seconda metà del Novecento, a delle conseguenze disastrose, culminate con il genocidio ruandese del 1994.
7Cedric Robinson, “Black Marxism: The Making of the Black Radical Tradition”, Zed Books, Londra, 1983, pag. 26
8Si vedano in particolare gli studi e le battaglie contro tali strutture condotte dai coniugi Basaglia-Ongaro e collaboratori tra gli anni ‘60 e ‘70 del Novecento in Italia: (a cura di) Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo”, Einaudi, Torino, 1969; Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia, “La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale totale”, Einaudi, Torino, 1971; (a cura di) Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, “Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione”, Einaudi, Torino, 1975.
10David T Mitchell e Sharon Snyder, “The biopolitics of disability: neoliberalism, ablenationalism, and peripheral embodiment”, University of Michigan Press, Ann Arbor, 2015, pag. 12
11Per una panoramica sulla nascita ed evoluzione attuale dello specismo si veda il libro di Giulia Heliaha di Loreto, “Animalità tradita: le radici dello specismo”, Ortica Editrice, 2024, 164 p.
12Daniel Sayers, “The most wretched of beings in the cage of capitalism”, International Journal of Historical Archaeology, Volume 18, n. 3, pag. 534
13Metodologia sviluppata dalle filosofe Diana Coole e Samantha Frost come “analisi materialista multimodale delle relazioni di potere.” Tale approccio consente di uscire da quegli approcci seguiti con traiettorie predeterminate, necessarie o prevedibili, e sviluppa una visione materialistica e poliedrica dei fenomeni ed eventi presi in considerazione. Si veda il libro Diana Coole e Samantha Frost, “New materialism: ontology, politics, agency”, Duke University Press, Durham, 2010.