Traduzione dell’articolo “‘The scenes of the Nakba are repeating’: Rafah in panic as Israeli invasion begins”
L’invasione di Rafah, a lungo minacciata da Israele, è iniziata. Sotto la copertura di un intenso bombardamento aereo, martedì mattina (7 Maggio, ndt) le forze israeliane sono entrate nella città più meridionale della Striscia di Gaza – diventata un rifugio per 1,5 milioni di palestinesi che non hanno altro posto dove andare. Questo è il momento che più temevano i palestinesi; vi è, quindi, il potenziale di una catastrofe più grande di qualsiasi cosa abbiamo visto finora. I gazesi contavano sul mondo per fermare questa invasione, e il mondo li ha delusi.
I residenti di Rafah sono stati, a lungo, in uno stato di panico – in previsione di questa eventualità. Il panico si è intensificato lunedì mattina (6 Maggio, ndt), quando l’esercito israeliano ha sganciato dal cielo dei volantini che ordinavano a coloro che vivevano nei quartieri orientali di Rafah di fuggire immediatamente verso la zona costiera mal attrezzata di Al-Mawasi.
Nel giro di poche ore, decine di migliaia di persone hanno impacchettato ciò che restava delle loro vite – molti di loro per la terza, quarta o quinta volta da Ottobre – e si sono diretti a nord-ovest, verso quella che Israele chiama “zona sicura allargata”. Ma se i palestinesi hanno imparato qualcosa negli ultimi sette mesi è che nessun luogo di Gaza è mai al sicuro dagli attacchi di Israele.
“Dal primo giorno di sfollamento, ho vissuto nella paura”, ha detto a +972 la 48enne Reem Al-Barbari. “Sono stata sfollata da Gaza City cinque mesi fa e mi sono rifugiata subito a Rafah, perché l’esercito ci aveva detto che era una “zona sicura”. Ma lunedì mattina sono caduti dei volantini che ci intimavano di evacuare e ci sono stati intensi bombardamenti per tutta la notte fino a martedì.”
“Il cielo è diventato rosso per l’intensità delle esplosioni”, ha continuato Al-Barbari. “Non siamo riusciti a dormire; aspettavamo che le ore del mattino sradicassero di nuovo le nostre vite. Le strade erano affollate di cittadini. Tutti stavano scappando”.
Al-Barbari sperava che, quando finalmente sarebbe arrivato il momento di lasciare Rafah, sarebbe potuta tornare a casa sua, nel quartiere Zaytoun di Gaza City. “Me ne sono andata piangendo”, ha detto. “Siamo andati a cercare un posto dove stare, nei dintorni di Al-Mawasi. Lì, però, non ho parenti o amici. Siamo stati ospitati temporaneamente da altre famiglie sfollate da Gaza City finché non abbiamo trovato una tenda per noi”.
“La situazione è molto dolorosa”, ha aggiunto Al-Barbari. “I nostri sentimenti non possono essere espressi a parole. Stiamo vivendo una crudele ingiustizia e la guerra la sta intensificando. Noi cittadini siamo le sue vittime.”
“Mi sembrava di lasciare questa casa per sempre”
Nonostante gli avvertimenti delle organizzazioni umanitarie, l’affermazione del presidente statunitense Joe Biden (un’invasione di Rafah sarebbe una “linea rossa”) e l’accettazione da parte di Hamas dell’ultima proposta egiziano-qatariota di cessate il fuoco– la quale aveva scatenato fugaci festeggiamenti tra i palestinesi di tutta Gaza -, l’esercito israeliano ha proseguito la sua incursione in mezzo ad un incendio vicino al confine egiziano. Da allora, l’artiglieria e i bombardamenti sono continuati senza sosta.
Per ora, l’operazione si concentra sull’area orientale della città e sul valico di Rafah – tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, ovvero l’unica via d’accesso al mondo esterno per i feriti gravi, i malati gravi e coloro che hanno la fortuna di potersi pagare la fuga. Anche il vicino valico di Karem Abu Salem/Kerem Shalom è stato chiuso per diversi giorni, impedendo l’accesso agli aiuti umanitari essenziali per i residenti del sud della Striscia; mercoledì mattina (8 Maggio, ndt), secondo quanto riferito, Israele lo ha riaperto.
Maryam Al-Sufi, 40 anni, viene da Al-Shoka, uno dei quartieri orientali di Rafah. “Stavo andando a comprare delle verdure al mercato e ho sentito molte persone dire che l’esercito aveva lanciato dei volantini su Al-Shoka e sulle aree circostanti”, ha raccontato a +972. “Sono corsa a casa per avere conferma della notizia e ho trovato i vicini in strada che parlavano di questo. Ero molto confusa e non sapevo come prendere la decisione di lasciare la mia casa”, ha continuato Al-Sufi. “Mio marito e i suoi fratelli hanno deciso che era necessario per la sicurezza dei nostri figli; c’erano scene di bambini [morti, uccisi dai] bombardamenti delle loro case. Ma io amavo tutte le cose che avevo in casa. Ho iniziato a raccogliere gli oggetti di cui avremmo avuto bisogno e molti vestiti dei miei figli. Mi sembrava di dover lasciare questa casa per sempre.”
Al-Sufi e la sua famiglia hanno impacchettato le loro cose e sono andati a stare dai parenti che possiedono un bar sulla costa. “La strada era affollata di auto e camion che trasportavano gli sfollati”, ha ricordato la donna. “Mentre fuggivamo, abbiamo visto le bombe cadere nelle zone orientali della città. Siamo costretti a piangere”, ha continuato. “Nessuno può proteggerci dai bombardamenti. Dicevamo che Rafah fosse sicura – abbiamo accolto i nostri amici e parenti [fuggiti da altre zone di Gaza]. Ma l’esercito ha attaccato tutte le aree e non ha risparmiato nessuno.”
“Siamo sfollati per paura dei nostri figli”, ha aggiunto Al-Sufi. “Abbiamo visto cosa è successo a Gaza City e a Khan Younis. Speriamo che Rafah non venga distrutta e, soprattutto, di non perdere nessuno”.
“Siamo intrappolati in un incubo senza fine”
Circa 100.000 palestinesi abitano in un area che, da lunedì, Israele ha ordinato di evacuare. Da quel momento, molti palestinesi sono fuggiti dalla città, temendo che l’invasione israeliana si espandesse rapidamente oltre i confini attuali e mettesse in pericolo la vita dell’intera popolazione.
“Viviamo in uno stato di ansia acuta”, ha spiegato Ahmed Masoud, attivista per i diritti umani presso il Forum per lo sviluppo sociale di Gaza, avvertendo che un’incursione su larga scala comporterebbe una catastrofe [senza eguali]. “La maggior parte degli sfollati nelle tende sono bambini, donne e anziani”, ha detto, aggiungendo che la popolazione è già indebolita da mesi di stanchezza, fame, malattie ed esposizione al freddo invernale e al caldo estivo.
Reda Auf, un venditore di 35 anni, ha raccontato a +972 che da lunedì, in tutta la città, si è diffusa un’atmosfera di panico. “La gente qui ha paura”, ha detto. “Camminano con le borse in spalla e i bambini accanto a loro. Le donne piangono per l’oppressione dello sfollamento. Non hanno fiducia nella clemenza dell’esercito perché esso non risparmia nessuno”. Decine di massacri si sono verificati negli ultimi due giorni a causa dei continui bombardamenti, non solo nelle aree evacuate a est della città, ma anche al centro e a ovest.
“La gente sta spostando le proprie cose e cerca un posto dove rifugiarsi; ma non c’è un luogo sicuro”, ha continuato Auf. “Tutte le aperture verso il mondo esterno sono state chiuse e nessuno sente la nostra situazione. Cercherò anche una tenda per me nei dintorni di Al-Mawasi, perché l’esercito estenderà [la sua invasione] ad ovest della città […sempre] se non troverà qualcuno che fermi questa sanguinosa operazione.”
“La prospettiva dell’evacuazione da Rafah mi riempie di terrore”, ha condiviso Abd al-Rahman Abu Marq, che ha subito lo sfollamento tre volte da Ottobre a oggi. “Il mio cuore freme alla vista dei volantini che vengono lanciati. Non so dove andremmo o come ci arriveremmo. Ho una madre che non può camminare per lunghi tratti e sono responsabile delle mie sorelle. Sto cercando di formulare dei piani di emergenza nel caso in cui si renda necessaria l’evacuazione. Ma il solo pensiero mi riempie di terrore. Per me la morte improvvisa è preferibile alla straziante attesa di ciò che ci aspetta”.
“Ci troviamo intrappolati in un incubo senza fine mentre violano i nostri confini, apparentemente autorizzati dall’America”, ha dichiarato a +972 Abu Salem, un 55enne che vive in una tenda nel quartiere di Tal el-Sultan. “In tutte le regioni di Gaza, il ciclo di invasioni di terra perdura, accompagnato da atrocità contro i civili. Eppure il mondo rimane stranamente in silenzio, come se fosse ignaro della nostra situazione.”
“Le tende sono diventate un lusso”
La chiusura dei valichi di frontiera, così come la soppressione forzata della principale struttura medica di Rafah, l’ospedale Al-Najjar, promette di esacerbare una situazione umanitaria già disastrosa per coloro che rimangono in città. Centinaia di migliaia di palestinesi vivono in tende di fortuna che, spesso, non sono in grado di svolgere le funzioni più elementari di riparo e non sono attrezzate per ospitare persone nel lungo termine. La ricerca di generi alimentari di base è diventata, da tempo, una lotta quotidiana e la diffusione delle malattie è sempre più dilagante.
Il grave sovraffollamento, la scarsità di beni e il numero limitato di venditori e distributori ha reso praticamente impossibile il soddisfacimento delle enormi necessità della popolazione. I residenti sono costretti a fare la fila davanti ai negozi, spesso prenotando il proprio posto prima dell’alba – in modo da assicurarsi i prodotti disponibili prima che questi finiscano.
Tra coloro che stanno lottando c’è Hisham Yousef Abu Ghaniama, un padre sfollato di sei figli, che risiede nel distretto meridionale di Tel al-Sultan. Non avendo altri mezzi di trasporto a disposizione, Abu Ghaniama è costretto a raggiungere a piedi il centro di Rafah ogni giorno – un viaggio di un’ora e mezza a tratta. “Viviamo in una tragedia senza fine”, ha detto. “Ho 34 anni e i miei capelli sono diventati grigi per le preoccupazioni e i dolori che dobbiamo affrontare”.
La famiglia di Abu Ghaniama, originaria di Shuja’iya, a est di Gaza City, ha affrontato un viaggio straziante dall’inizio della guerra. Costretti a fuggire dalla loro casa, hanno inizialmente cercato rifugio nelle scuole dell’ “Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente” (UNRWA) nel nord della Striscia, prima di essere nuovamente sfollati a Khan Younis. La loro situazione ha preso un’altra piega devastante quando in quel luogo sono stati improvvisamente attaccati dall’esercito israeliano: sono stati costretti a fuggire, abbandonando i loro vestiti e i loro effetti personali.
“Non capisco cosa ci stia succedendo. La situazione ha superato i limiti della logica e della ragione”, ha detto Abu Ghaniama. “Prima della guerra, ero solito chiedere ai miei figli cosa gli piacesse mangiare, ma ora stiamo cercando qualsiasi cibo disponibile per rimanere in vita. Ti vuoi seppellire quando tua figlia piange e ti chiede una caramella. Come posso farle capire la situazione che viviamo? Per sette mesi siamo stati uccisi e i nostri corpi si sono ridotti a metà. Dopo quanto tempo questa [situazione] ci porterà alla morte?”
Descrivendo le condizioni implacabili, parla di mattinate inghiottite da un caldo soffocante e di serate avvolte da un freddo agghiacciante. “Vivere in una tenda a Tel al-Sultan significa soffocare”, ha detto, “senza aria pulita” a causa dell’odore acre del fumo e della puzza di rifiuti. “Anche le cose più semplici sono complicate: fare un sonnellino, sedersi tranquillamente con la propria madre, fare una doccia, sentirsi al sicuro e non soffrire di mal di schiena o di stanchezza causato dal dormire sul pavimento”.
Secondo Ahmed Mamoun – sfollato dal campo profughi di Al-Bureij (centro di Gaza) dopo che questo era stato bombardato da Israele -, l’aspetto più inquietante, probabilmente, è la crescente normalizzazione della sofferenza, mentre la disperazione spinge le persone a fare a gara per ottenere quelli che ora sono considerati trionfi personali. “Le tende sono diventate un lusso”, ha detto Mamoun. “Se c’è un metro tra te e il tuo vicino, la gente ti invidia e dice che hai un condotto di ventilazione.”
Tuttavia, la prospettiva di assicurarsi un riparo duraturo è molto limitata a causa dell’aggravarsi delle azioni guerresche. Mamoun è stato costretto a costruire una piccola tenda per la sua famiglia di sette persone con legno e plastica: gli è costata circa 570 dollari. “A causa della scarsità delle materie prime, il prezzo dell’attrezzatura che ho acquistato è superiore rispetto al prezzo originale pre-guerra”, ha spiegato.
“Il campo è un terreno fertile per le malattie”
Il cibo e un riparo adeguato non è l’unica necessità che scarseggia a Rafah; anche le strutture mediche, specie dopo l’intensificazione dell’attacco israeliano. Nelle ultime tre settimane, Mahmoud Gohar Al-Balaawi, 62 anni, ha percorso la distanza tra il campo di Tel al-Sultan e la clinica più vicina – un viaggio di tre ore a piedi – per procurarsi i farmaci vitali per la pressione alta e il diabete.
“Sono un uomo anziano; mi ritrovo svuotato di energie, incerto se dare la priorità alla mia salute, alla preoccupazione per i miei figli che sono assediati nel nord della Striscia, o alla gestione del nostro sfollamento a Rafah”, ha lamentato l’uomo. “Qui, tutti sembrano preoccupati della propria sopravvivenza. È un ciclo infinito di angoscia. Sono esaurito nella mente e nel corpo.”
Le malattie sono in aumento a causa del grave sovraffollamento e della mancanza di igiene, acqua corrente e assistenza sanitaria adeguata. Due delle malattie più diffuse sono il colera e l’epatite – le quali si diffondono attraverso l’acqua contaminata.
“Per noi, qui manca la vita…anche le necessità più elementari”, ha dichiarato a +972 Fatima Ashour, madre di tre figli. “Non ci sono bagni puliti, né servizi igienici. I rifiuti si accumulano a terra e i bambini ci giocano, ignari del pericolo. Ogni giorno passo il pettine sui capelli di mia figlia, lottando contro l’incessante assalto dei pidocchi. Non si può fare un solo passo senza sfiorare qualcun altro. Siamo ammassati come sardine, senza alcuna tregua in vista.”
Due settimane fa, Zaid, il figlio di 6 anni di Ashour, ha iniziato a sembrare emaciato e i suoi occhi sono diventati gialli per l’itterizia – un’indicazione del suo fegato malato e un segno rivelatore dell’epatite. Lui adesso è immobile e giace fiacco tra le braccia della madre, con gli occhi spenti dal peso della malattia.
Prenotare un appuntamento in uno dei pochi ospedali cittadini sovraffollati è estremamente difficile. E qualora si ottenga un appuntamento, non è detto che siano disponibili i farmaci necessari e i medici. Nel frattempo, senza spazio per l’isolamento, l’assistenza verso Zaid mette a rischio la salute di tutta la sua famiglia. “Il campo è un terreno fertile per le malattie”, ha detto Ashour, con la voce pesante. “Senza accesso all’acqua potabile o ai servizi igienici adeguati, siamo tutti a rischio.”
[Assassini e vittime]
Le condizioni di vita sono tali che alcuni degli sfollati si chiedono se sarebbero dovuti fuggire dalle loro case. “Avrei preferito affrontare il pericolo dei carri armati israeliani nel nord piuttosto che sopportare l’incessante tormento di questa angoscia mentale”, ha dichiarato a +972 il 26enne Ahmed Hany Dremly.
In effetti, la vista di nuovi e massicci campi profughi nel sud di Gaza evoca ricordi struggenti per i palestinesi: le esperienze dei loro antenati durante la Nakba.
“Stiamo vivendo una nuova catastrofe, un nuovo sfollamento. I dettagli odierni rispecchiano [gli eventi] di quasi 76 anni fa”, ha dichiarato Umm Ali Handouqa, 72 anni, la cui famiglia fu espulsa da Majdal (l’attuale città israeliana di Ashkelon) verso la Striscia di Gaza nel 1948. Handouqa ha rievocato i suoi ricordi d’infanzia nel campo profughi di Al-Shati, ricordando le privazioni e le dure condizioni che hanno sopportato. Le tende si sono gradualmente trasformate in piccole case di cemento man mano che la temporaneità diventava una realtà permanente – e Handouqa teme che un destino analogo possa toccare ai nuovi campi di Gaza.
“Gli echi delle storie che mia madre mi ha raccontato sulla Nakba risuonano nelle mie orecchie”, riflette Handouqa. “Le stesse scene e gli stessi dettagli si ripetono, lo stesso oppressore e gli stessi oppressi, gli stessi assassini e le stesse vittime. Siamo fuggiti dal nord per paura che le forze israeliane entrassero nelle nostre case, uccidessero i nostri figli davanti ai nostri occhi e stuprassero le donne”, ha detto. “È lo stesso motivo per cui mio padre è fuggito da Majdal a Gaza.”